Perdersi, ritrovarsi. Gradi di libertà.

La libertà di una persona prescinde da quella delle persone che ama. Ma le due cose devono andare di pari passo. Più o meno, è questo il succo di questi giorni. Ma andiamo con ordine.

Il cambiamento è inevitabile. Puoi provare a fermarlo, quantomeno a rallentarlo, ma alla fine arriva. E puoi adattarti, o soccombere, dicono. Ma c’è una via di mezzo: accettarlo, e metterci del proprio.
Prima legge del cambiamento: le persone non cambiano perché il mondo esterno le spinge a cambiare. Non cambiano in conseguenza dei propri errori. Non cambiano nemmeno se continuano a sbattere il naso contro il muro.

Le persone cambiano quando vogliono cambiare.

Tutte le altre variabili possono influire, certo. Possono dare quel valore aggiunto, dare una direzione, fornire indicazioni. Ma fin tanto che non è la volontà a decidere che è giunto il momento di seguire quella direzione, quelle indicazioni, non c’è evento che tenga. Si resta immobilizzati, continuando nei propri errori, nella solita strada, senza cambiare di una virgola.
Poi, qualcosa cambia. Non fuori, ma dentro di te. E di dice: è ora di fare una virata.
E quando arriva quel momento, non serve altro.

Sembra banale. Ma ci ho messo secoli a capirlo. Che non basta dire, fare, o semplicemente mostrare una possibilità alternativa. Che se il cambiamento non arriva, non è colpa mia.

Non è colpa di nessuno. E’ solo che il cambiare fa parte delle libertà individuali. E che se uno non lo desidera, è libero di restare dove si trova. E che io mi devo sentir libero di accettarlo, e di poterci anche star male.

Per me, riuscire ad accettare ciò è un cambiamento non da poco. L’ho percepito distintamente, qualche settimana fa. Potersi godere appieno il primo weekend di scuola, dopo settimane e settimane di stallo, di crisi. E da quel momento, davvero è iniziato tutto.

Un nuovo cambiamento. Già. Perché non posso obbligarlo, ma ho sentito come doveroso creare la possibilità che si verifichi. Quantomeno, con le persone cui tengo. Con la realtà che ho contribuito a creare.
E quindi. Arrivare al punto di dirlo: me ne vado. Stop, fine. Ma non per esasperazione, non per rabbia, non per rivendicazione. Ma per offrire poi una alternativa. Si chiude una fase, che non ha portato se non difficoltà e problemi. Se ne può aprire un’altra, differente. Che forse porterà da qualche altra parte, ma di sicuro non al medesimo stallo.

C’è una differenza anche nel chiudere con qualcuno. Puoi farlo in modo distruttivo, facendolo sentire uno schifo, facendo macerie di tutto quello che è stato costruito, bloccando l’altro in un loop senza fine. Ma lo si può fare anche in modo costruttivo. Mostrando che non c’entrano sentimenti negativi, ma che la libertà personale va di pari passo con quella altrui.
E quello di cui si parlava così spesso in comunità, con Daniel, e con gli altri in equipe, ora lo sperimento su me stesso. E sulle persone che mi circondano.

Nel concreto: si chiude un rapporto di lavoro, ma se ne apre un altro di collaborazione. Si chiude una fase da dipendente, e se ne apre un’altra da professionista. Un po’ in anticipo rispetto alla tabella di marcia, certo. Ma un passo dovuto. Sempre per aumentare i gradi di libertà. Che non sono dipendenti da situazioni ed eventi esterni, quanto da imposizioni e ordini che ti dai dall’interno.
Il nemico numero uno della libertà di una persona, a quanto pare è proprio sé stesso. Che può però diventare anche il più potente alleato.

E come sempre, di fronte a un cambiamento, si viaggia. Berlino, stavolta. E scoprire una città che non avresti mai immaginato, e godersi il viaggio con una libertà che non mi aspettavo. Ma non tanto per cambiamenti esterni, quanto per i miei.

Ora, rientrato, inizia questa nuova avventura. Ma il profumo di questa libertà, interiore, sempre più riconquistata, attenua anche le normali paure. Anche perché, la più grande libertà, è quella di non essere solo. Di non sentirsi solo.