Due mondi, due esistenze.
Quell’esame sembrava dannatamente difficile. Erano settimane che lo preparavo.
Avevo appena ripreso a studiare, dopo più di un anno nel quale l’unico interesse era stato far festa, divertirsi, bere, fumare. E poi c’era lei. C’era sempre stata lei. E c’era stato quell’unico momento che avrebbe potuto fare la differenza, e il negare ogni sentimento, ogni emozione. Nonostante le nostre lacrime avessero svelato da tempo le bugie di entrambi.
Primo febbraio, data caratteristica. 01/02/03. Quell’esame era arrivato. Non ci capivo un’acca di fisica, non capivo perché quella derivata dovesse stare proprio lì. Ma soprattutto non davo un senso alla mia presenza lì. Perché stavo mettendo tutto me stesso nel superare un ostacolo che non sentivo essere sulla mia strada, e perché mi ostinassi a perseguire quella strada, che nemmeno era la mia. Io volevo solo fare il riparatore, aggiustare, trovare un lavoro in una azienda che si occupasse di informatica. Tutto il resto non mi interessava. E superare ostacoli che non vedevo necessari, arrivare a una laurea che vedevo come superflua, mi sembrava un’enorme perdita di tempo. Le conoscenze pratiche le avevo, sapevo di poter fare quel lavoro. Quindi: che stavo facendo?
L’ora e mezza trascorse veloce. Mi sembrava anche di essere a buon punto. Quei calcoli mi erano riusciti pure abbastanza facilmente, arrivavo a ottenere dei risultati che mi sembravano pure realistici. Era fatta, l’avrei superato. Pochi minuti dopo uscivo, prima del termine del tempo concesso dal prof. La prima cosa da fare era accendersi una sigaretta. Sotto la pioggia, ovviamente.
Quel cappotto nero mi nascondeva. Era enorme. Rimaneva fuori soltanto la faccia, o meno, dietro occhiali scuri, berretto, sciarpa. Si, probabilmente la cosa più visibile era la sigaretta.
Ecco, inizia la transumanza, pensavo. Quel centinaio, su per giù, di colleghi studenti, che escono bestemmiando in molteplici lingue. L’esame era davvero dannatamente difficile. Alessio di avvicina, sta fumando la pipa. Mi chiede se ne voglio. Non era caricata a tabacco, ovviamente. Il profumo lo conoscevo bene, orange, un tiro e mi ritrovo con una tosse da panico, e giù a ridere. Ma il ritorno mi attendeva. Mi sentivo un estraneo lì, sarei voluto ripartire al più presto per tornare a casa. Dieci minuti dopo ero già sulla via del ritorno.
Red Hot Chili Peppers. Ovviamente ad alto volume. La strada corre veloce, supero il fiume, mi ritrovo sul cavalcavia di Pieve. E lì…
Il cuore si ferma. Me ne accorgo, e il primo pensiero è: oh cazzo.
Mi sento rosso, sudato, col fiatone. Poi riparte.
Ma che cazz.. si ferma di nuovo.
Il respiro si fa veloce, repentino, incoerente. Tossisco, oh cazzo ma che cazzo succede. Riparte.
Apro il finestrino. Sto morendo? Proprio ora che ho fatto questo dannato esame? Cioè, tutto questo per niente?
Riesco a fermarmi. Via Monte Grappa, parcheggio sulla destra. Scendo dall’auto. Il cuore si ferma di nuovo. Tossisco, e riparte.
Sto impazzendo? Dove diavolo sono? Cosa sono?
Mi accendo una sigaretta. Respiro profondo il fumo, l’ossigeno. La butto. Fame d’aria, il cielo è grigio, tutto è grigio. Ci sono solo io, e io.
Me ne accendo un’altra. Mi viene da ridere, mi viene da piangere.
Pochi minuti passano, e torno normale. Cosa è successo?
Ritorno a casa, la prima cosa da fare è chiedere. Mamma, mi è successo questo, e spiego. Sarai stato stanco, non darci troppo peso, la risposta. Piuttosto scontata, devo dire.
Di lì, nulla fu come prima.
Le crisi, questo il nome che diedi a quegli episodi che ancora non sapevo si chiamassero attacchi di panico, si susseguirono. Mi ricoverarono infine, per accertamenti. I medici temevano che ci fosse un reale problema cardiaco. Ovviamente, non c’era. Ma ospitarmi in geriatria, a causa della cronica mancanza di posti letto, non fu un’idea proprio sana. Dopo cinque giorni, dei sei iniziali che eravamo, e dei quali il più giovane aveva il triplo dei miei anni, quattro se n’erano andati al creatore. Un toccasana, devo dire. Se non altro, nell’ultimo giorno di permanenza, di crisi non ce n’erano state.
Ricordo come fosse ieri la serata della dimissione. Il giorno di San Valentino. Prima cosa da fare, chiamare Sandro. Andare a bere una birra, raccontargli l’avventura. Ovviamente, Monaco. E Weizen, piccola, che avevo in corpo ancora troppi farmaci. “Biirrra..! Aaaaah!” esclamai, quando arrivò Adriano salutandoci. Ma l’accento, con il quale parlavo, nemmeno quello era il mio.
Quel viaggio obbligato all’inferno era appena iniziato. Io non me ne rendevo conto. Dopo appena quindici giorni dal primo sintomo, non avrei potuto immaginare che quella vita sarebbe a breve terminata. Per lasciare il posto a un’altra.
Settembre. Mi sentivo pronto a riprendere, o meglio, l’appello incombeva e non potevo sottrarmi nuovamente ai miei doveri. Così consideravo quel percorso: un dovere. Ed ero così vicino a superare quel nuovo esame, che…
Che non potevo farlo.
Quel momento sarebbe stato un punto di non ritorno. Lo scoglio più grande, e tutto poi sarebbe stato in discesa. Ma era davvero ciò che volevo? Volevo davvero proseguire per quella strada?
Non pioveva, c’era una brezza leggera e calda di fine estate. Il parchetto davanti all’aula studio aveva una panchina, e mi sedetti lì. A ripassare. L’esame sarebbe stato il giorno dopo. Dovevo superarlo. Quella trasformata mi riusciva, ed era la più difficile della dispensa. Così provavo a rifare i conti a mente, per vedere se avevo davvero capito.
Finché le lacrime non iniziarono a scendere.
Quella non era la mia vita, o almeno, non lo era più. O forse, non lo era mai stata. Ma qualcosa era cambiato, negli ultimi mesi. Non sentivo più quella strada come la via obbligata, come l’unica che potessi percorrere. Da un lato la famiglia, il senso del dovere, che mi invitavano a smettere di frignare e fare l’uomo. Che cosa sarebbe mai stato quell’esame, che cosa aspettavo a buttarmi, a proseguire diritto… Dall’altro io, solo io, che non ne potevo più di mentire a me stesso.
No, pensai. Basta. Basta.
Sollevo il telefono, compongo il numero. No, non ce la faccio. Odio sta roba, non posso continuare. Sto troppo male. Voglio uscirne.
La sera, la decisione. E nel giro di cinque giorni trovare un lavoro. Che, paradossalmente, era quello che avrei sempre voluto fare. Fare del mio hobby il mio lavoro. Aggiustare, riparare.
Il colloquio andò così bene che non mi accorsi nemmeno di sostenerlo. E la risposta “quando vuoi iniziare” tolse ogni dubbio a quella scelta. Ora potevo aggiustare, riparare.
La crisi. E sentivo che qualcosa era cambiato.
Riparare, aggiustare. Si. Ma cosa?
Dubbi, dubbi, e ancora dubbi. Gli anni trascorrono veloci, se non pensi. Se il dolore di pensare viene annegato nel lavoro, nelle amicizie fittizie, nell’alcool. Se non pensi. Se fuggi.
Il problema è proprio questo: si fugge. Dai ricordi, dalle situazioni non elaborate, dai non conclusi, dal proprio sé.
E infatti, appena due anni dopo, la virata. E farsi la domanda: aggiustare cosa?
Di lì, nuovo cammino. Ridisegnare il futuro. Era stata solo una tappa, ma il cammino continuava.
Bello corazzato, con una nuova armatura, così spessa da permettermi di essere qualcosa, senza avere altre crisi, senza permettere tuttavia alla mia pelle di respirare.
Mettersi in discussione. Parte integrante di questo percorso.
Dopo sei anni di università, da psicologo stavolta. E rendersi conto che non si tratta tanto di aggiustare, di riparare, quanto proprio di trovare la propria strada, di fare da appoggio, finché non si riesce ad accettare ciò che ha lasciato il passato, e trovare le chiavi di volta per il futuro. E questo conta sia per il paziente, che per il terapeuta.
Ora. Torno al presente.
Una lunga digressione. Sono settimane che ci lavoro. Non avevo idea di cosa sarebbe potuto uscirne. Ma è tutto ancora in corso. O meglio, i nodi vengono al pettine, e sto lavorandoci proprio ora.
Per poterci pensare, per poter amalgamare la prima e la seconda vita, che in fondo son sempre io, anche se sembrano capitoli così distaccati, così diversi.
Sentirle due vite, una bella difesa quella che ho eretto. Tengo scisso il mio passato dal mio presente, ma anch’esso è parte di me.
Che, ciclicamente, ritorna.
Se penso a cosa mi ha fatto soffrire negli ultimi anni. Sempre sul tema dell’orgoglio siamo.
L’essere in grado di capire le persone al volo, di non fare errori di valutazione, per non restare deluso. Ho bisogno di dare fiducia, e spesso la si dà ciecamente quando si ha bisogno degli altri. E riconoscere il bisogno degli altri è, per me, già un gran risultato. Ma il punto è: accettare di sbagliare.
Prima, quel narciso terribile che ha smembrato ciò in cui tenevo di più. Poi, ricomporre, perché io riparo, giusto? E poi, nuovamente, vedere tutto esplodere, stavolta grazie a chi consideravo una persona degna di fiducia e invece si è rivelata essere interessata solo al proprio tornaconto. E pensare infine che, di ricomporre nuovamente, non ne valeva nemmeno la pena. Perché chi sono io per decidere del futuro altrui, anche se in buona fede… Quindi, cazzi vostri.
Ma al contempo, l’orgoglio pesa. Di non aver capito in tempo, di aver fallito. La razionalità dice: pazienza, succede! Ma l’emotivo no, non lo accetta. E anche qui, in sostanza, resto bello che scisso.
Ma ora. Oltre al lavoro, che porto avanti ogni giorno tra le mille difficoltà, e anche lì ingoiare il rospo e tenere a freno l’orgoglio è un impegno… cosa resta?
Resta che c’è ancora il passato, che ciclicamente torna. E tormenta.
E il sogno di stanotte non lascia dubbi. Tu, ancora lì. Ventenne, come ti ricordo, com’eri l’ultima volta che ci siamo visti. Di sfuggita, perché per parlarsi lo spazio non poteva esserci. L’orgoglio, anche allora.
Chissà ora dove sei. Chi sei. Che fai, che futuro avrai.
E’ un flusso di pensieri inarrestabile. Perché infine, tutto è ancora legato ad allora. E a te.
Undici anni di tempo, undici anni di percorso. E capire infine che devo riconciliarmi con ciò che ero, per poter vivere ciò che sono, e poter continuare a progettare il futuro. E stavolta, non solo il mio.
Ascoltare oggi “Pull me under” dei Dream Theater, o gli Angra, o ancora “Under Pressure” dei Queen, la tua preferita, è ancora un tuffo al cuore.
Ma almeno ci riesco. Non mi rifiuto più. Le lacrime scendono, il passato ritorna, inconcluso.
Non potrà mai concludersi. O meglio, non posso farlo concludere io. E’ fuori dalla mia portata, non ne ho il potere. E qui è l’orgoglio che va tenuto a freno. Che va domato, e per domarlo, accettato prima.
Tempo. Da bravo timelord ricordo a me stesso che ne ho quanto ne voglio, ma in realtà posso solo guardare avanti a me, non posso cambiare il passato.
Ecco quindi, come sto ora. Dove sono andato a finire, cosa mi tormenta. Posso correre se ho una meta, ma al contempo non posso continuare ad avere una fune che mi tiene ancorato alla prima vita, e che mi rimanda ciclicamente al punto di partenza.
La scuola mi aiuterà, penso. La vita da specializzando già mi entusiasma. Ho poco meno di quattro anni davanti. Ho fiducia, dovrei… dovrei farcela.