Corri, ragazzo. E ricorda.

Manca poco, anzi pochissimo.
Giugno è arrivato, implacabile. Con il suo carico di impegni, di situazioni nuove da affrontare. Di ansie, di nodi alla gola.
Momenti di svolta. Che anche se attesi con impazienza, spaventano. Che anche se desiderati, mettono angoscia.

Situazioni nuove. Per certi versi, sconosciute. Per altri, conosciute fin troppo.
Come la mia reazione di fronte a loro. Spesso, troppo spesso, la fuga. Il desiderio di evitarle, anche se la sfida di per sè è entusiasmante. Voglia di stabilità, di normalità, di non dover correre ogni istante.
Ma è la mia vita. Me la son cercata, me la son costruita così. Ho iniziato a correre, e non mi sono più fermato. Spaventato, forse. Forse dal tempo, forse da me.

Ancora dieci giorni, e me la starò facendo sotto più di adesso. Ma non è questo l’appuntamento che mi spaventa di più. Chi mi conosce, sa di che parlo.
Una nuova casa, una nuova sfida. Come cambiare pianeta, per certi versi.
Quello che difficilmente cambia, sono io. Ne parlo spesso, il lunedì mattina.

C’è una costante che ha caratterizzato la mia vita. Sia la prima, che la seconda.
L’aggiustare. Il riparare. Il tentare di sistemare le cose anche dove non è possibile fare nulla, fino a rompersi le ossa, fino a che il cuore ti sanguina. Remare controcorrente, salvare anche chi insiste a buttarsi giù dal precipizio.
Mi è venuto automatico, stamane. Rileggere il diario, le pagine scritte quattro anni fa, quando tu barcollavi sotto i colpi di chi non riusciva a vedere che sè stesso.
Ricordo bene, mi veniva spontaneo sorreggerti, aiutarti a risollevarti, io, che mi sento l’esatto opposto di quella persona che ti aveva fatto così tanto male, io che al contempo la temo come la mia nemesi.
Cosa è cambiato in quattro anni? Ti ho vista barcollare molte altre volte, e ancora non riesco a capire perché. Perché finisci sempre in quelle situazioni, come fai a spingerti sempre sull’orlo del burrone. E perché mi ostino a esserci, a sorreggerti in quei momenti. Ad ascoltarti, ad asciugarti le lacrime. Ogni volta, come fosse la prima volta.
Se c’è una risposta… una risposta che forse ho paura di comprendere. Di accettare.

Tutto è collegato. La paura dell’ignoto, di affrontare situazioni nuove, ambigue, il desiderio di stabilità, la paura della normalità.
Ecco perché reagisco correndo. A occhi chiusi, mani a pugno e braccia sul torace e sulla faccia, quasi a proteggermi durante un bombardamento. Quando forse smettere di correre, e guardarsi in viso, risolverebbe tutto.

Corro, si. E non dimentico. Questa memoria è per certi versi una maledizione. Centinaia di cose che vorrei scordare, che vorrei cancellare. Sarebbe tutto molto più facile, e riuscirei a respirare molto meglio, in quella che pare una corsa in apnea.

“Cosa succede? Cosa posso fare?”
“Non puoi farci niente… è la vita.”

In certi momenti sono riuscito a chiudere la porta. A voltarmi. Forse, se in altri non ci riesco, è perché non lo voglio. La risposta più semplice che si possa immaginare, spesso è quella giusta. E quella al contempo temuta.