Senza pelle
Cos’è la pazzia?
Cinque anni a studiare psicologia, il disagio mentale, decine di teorie non esaustive e altrettanti autori che sembra abbiano fatto dell’autoaffermazione la loro stessa ragione di vita, centinaia di scuole di specializzazione in perenne lotta tra loro per accaparrarsi studenti danarosi, migliaia di specialisti o aspiranti tali impegnati nel dimostrare la loro supremazia, e una sola domanda… Cos’è la pazzia?
Una domanda che mi rimarrebbe in testa come un chiodo fisso. Forse, senza risposta.
Uso il condizionale perchè, senza la presunzione di essere riuscito a risolvere l’enigma, forse almeno ora ce l’ho davanti. Forse ora almeno riesco a intravedere qualcosa che, seppur attraverso il filtro di questi occhi miopi, si spinge fino nelle profondità della mia anima.
Ed è difficile, perchè è una luce che acceca, ed al contempo un buco nero che ogni cosa inghiotte.
Credo sia impossibile da spiegare… se non ce l’hai davanti. E ti disorienta al punto che le parole che provo a scrivere sembrano confuse, e appaiono come un quadro impressionistico.
Una cosa però posso dirla con assoluta certezza.
La pazzia non è malvagità. Non è quella lucida follia descritta da film e romanzi, permeati di personaggi oscuri e tenebrosi, spesso responsabili di spargimenti di sangue, dolore e morte. Non assomiglia neanche lontanamente a tutto ciò che il senso comune vuole farci credere, ed è anni luce dall’immaginario collettivo del “matto”.
Al contrario… lo ribadisco… nei pazienti che sto incontrando nel mio cammino si intravede l’umanità più profonda e più vera. Nonostante il dolore che permea le loro esistenze, le difficoltà che spesso nemmeno loro riescono a comprendere, dai loro corpi trasudano sentimenti che noi “normali” nemmeno possiamo immaginare…
E non prendo a caso una frase ad effetto da Blade Runner. E’ l’unica metafora che mi sembra comprensibile.
I matti… sono come senza pelle. Tutto impatta addosso a loro senza alcuna barriera protettiva, sono esposti a ogni genere di attacco come un organismo privo di sistema immunitario, che si arrangia come può per ripararsi da una fine altrimenti certa. Ogni parola, ogni emozione, arriva direttamente al profondo del loro cuore, senza che possano in qualche modo modulare gli stimoli che li circondano.
E altrettanto proiettano all’esterno. Tutto esce, non vi sono le migliaia di filtri che noi mettiamo tra mente e parola, tra pensiero e azione. E spesso escono talmente incomprensibili che ci rispondiamo “sono matti”.
Ecco questa parola… non sono loro matti, siamo noi che li definiamo tali. Per cercare di ricondurre tutto a una normalità, a uno standard a noi comprensibile, poichè siamo terrorizzati dall’inesplicabile.
Tutto ciò che non riconosciamo come nostro… lo definiamo altro. Diverso. Pazzo. Malato.
Ma quindi… il matto è pericoloso? O meglio, per citare una domanda che spesso mi fanno… Non è che rischi di uscire di senno a frequentare un ambiente pieno di matti?
Ma in effetti…se la pazzia l’abbiamo definita noi…come può essere possibile anche porsi una simile domanda?
C’è di più.
Sono senza pelle, dicevo. E stando accanto a loro impari a riconoscere emozioni, sguardi e parole che altrimenti ti scivolerebbero via come una pioggia che non bagna.
Ora ogni parola, anche quelle più assurde, hanno una sua logica. Difficile, certamente non binaria, probabilmente con più stati di quelli possibili in termini quantistici.
E inizi a vedere il mondo con occhi diversi. Attraverso le storie che ti raccontano, attraverso la miriade di emozioni disorganizzate che per loro sono la normalità.
Ad apprezzare ogni istante della tua vita, a sforzarti di comprendere punti di vista differenti dai tuoi, ad accettare che talvolta non puoi proprio capire e te la devi metter via.
Sono più umani di noi, credo. Più sinceri, più profondi, più veri. Non esiste la cattiveria, non esiste la malvagità, i rancori, non esiste nulla di tutto ciò.
Dietro ogni atto, ogni parola, anche la più volgare, capisci che c’è un perchè. Che c’è qualcosa che a te è incomprensibile, eppure c’è.
Ciò mi permette di guardare anche al resto del mondo con occhi diversi. Di accettare, di comprendere, anche quello che la mia indole mi farebbe rifiutare e combattere fino alla morte.
C’è altro per cui vale la pena morire. Non certamente le quattro cazzate per cui regolarmente ci danniamo l’anima.
Questo per rispondere a quelle domande… Non so se sia sufficentemente chiaro, non sono nemmeno sicuro che possa esserlo. Bisogna viverlo, per poterci anche solo provare a capirci qualcosa.
Ora sto pensando ai tre anni appena trascorsi. Non è un numero casuale, non lo è mai.
Tre anni fa per qualcuno tutto è cambiato. Sono crollati palazzi, è stata sconvolta la vita di ogni giorno, sono mancati gli affetti più cari. Il mio pensiero va a loro, e contemporaneamente investe me, che penso al mio cammino da quei momenti ad ora.
A quanto mi abbiano dato le esperienze vissute, a quanto mi manchi la vita in città, l’università, i compagni di appartamento, alla perenne domanda se io stia facendo davvero tutte le scelte giuste, a dove saranno finiti tutti gli affetti che ora sono lontani… e infine anche alla comunità dove ho fatto tirocinio fino ad oggi.
Già. Un altro cambiamento. Anche qui, un altro piccolo lutto da affrontare.
Tra pochi giorni, una nuova comunità, nuovi ospiti, nuovi racconti, nuove vite che aspettano solo di essere condivise. Nuovi mondi.
Mi son trovato talmente bene con operatori, colleghi e pazienti che ora questo cambiamento mi spaventa. Mi sembra di rivivere il lutto di quando ho lasciato Padova.
Credo che non sia casuale. Forse non l’ho ancora del tutto elaborato.
O forse un pò senza pelle ora lo sono anche io.