Diviso.
“Cosa succede? Cosa posso fare?”
“Non puoi farci niente… è la vita.”
Cosi chiudevo l’ultimo, e unico, post di giugno. Poi mesi di silenzio.
Mesi talmente densi di eventi che a sintetizzarli verrebbe fuori un qualcosa di incomprensibile. Ma partiamo dall’inizio.
Esame di stato: fatto, passato, e abilitato. Per alcuni versi proprio come me lo immaginavo, per altri inaspettato. E’ stata l’occasione per mettermi alla prova, per conoscere molte persone, per riaffermare anche a me stesso l’amore per la psicologia. Riaprire alcuni libri, in particolare alcuni paragrafi, e tornare con la mente ai momenti in cui affrontavo quegli argomenti per la prima volta. Sentirsi nuovamente uno studente alle prime armi.
Affrontare i casi clinici, cercare di decifrare situazioni ingarbugliate. Sulla carta, certo, ma con l’esperienza maturata durante il tirocinio, e i ricordi di quel periodo che affioravano dai miei occhi.
Già. Il tirocinio in comunità.
L’esperienza più piena e più viva mai fatta. Così diversa da quella in cui sono ora, ma anche così simile.
Torno infatti dopo l’esame al lavoro, quel lavoro accettato a febbraio più per necessità e per comodo che per interesse genuino. E trovo una situazione paradossale.
L’esplosione, scontata, attesa, e per certi versi auspicata, dell’azienda nella quale lavoravo. E la necessità di ripartire, praticamente da zero, rendendosi conto delle difficoltà legate agli inizi, e quelle relative ai trascorsi.
E contemporaneamente, immergersi a fondo nel mondo della nevrosi e dei disturbi di personalità.
C’è poco da fare, è una mia deformazione ormai. Non c’è scampo, quando mi relaziono con qualcuno viene praticamente automatico cercare di capire cosa ci sia dietro ogni affermazione. Se è autentica, se c’è del falso. E, sempre, se è una difesa.
Così mi son reso conto che la situazione lasciata ai primi di giugno era molto più intricata di quanto riuscissi, o volessi, vedere. Perché avevo accettato il lavoro per una mera questione economica, non perché il mio interesse maggiore fosse tornato a essere l’informatica. Non avrei mai pensato di dover contribuire a rimettere in moto un’attività.
Certo, tecnicamente non sarei tenuto a farlo. In realtà, il problema è che non posso farne a meno. Per indole, ovviamente. Il che non gioca certamente a mio favore.
Tuttavia, questa situazione mi sta portando a dover affrontare, controvoglia, un paio di questioni che avevo deciso di accantonare, di ignorare. In primis, i problemi psicologici al di fuori delle strutture. E in secondo luogo, e non per importanza, i miei di problemi.
Non riesco a tollerare una cosa: la calunnia. E più che questa, l’approfittarsi di chi non è capace, o non riesce, a difendersi. E anche stavolta avrei voluto reagire, come nell’altro trascorso che mi ha toccato nel vivo: con una castagna sul naso. Non so se ci sia stato qualcosa che mi ha trattenuto, o forse non vi è stata l’occasione. Ma per me è più forte il rancore per un danno fatto a un amico ingenuo, che se il danno fosse stato fatto a me direttamente.
E di lì torno poi a chiedermi “perchè?”. Cosa può spingere qualcuno ad agire così, manipolando gli altri e svalutandoli di continuo solo per sentirsi superiore? Come mai certe parole, certi atteggiamenti, richiesti più per sentirsi al sicuro che per esigenza oggettiva… come mai aveva così bisogno di sentirsi superiore…
Ancora una volta, faccia a faccia con un narcisismo ipertrofico. Che tutto distrugge, annienta, e nessuno salva. In particolare chi lo ostenta, e viene schiacciato da sé stesso.
Il sentirsi diviso è invece ciò che caratterizza me. Da un lato, la mia parte samaritana vorrebbe soccorrere anche chi non sta bene e ne è inconsapevole, presa dalla sindrome del salvatore. Dall’altro, il mio istinto di autoconservazione, che vorrebbe massacrare senza pietà. Due parti apparentemente inconciliabil, e nessuna delle due che vuole accettare mezze misure. E l’unica consapevolezza che questo bianco o nero probabilmente non è mio, ma è una difesa che origina proprio dalla persona che mi sono trovato davanti.
Al contempo, il voler insegnare a qualcuno a ricoprire come si deve il suo ruolo, e contemporaneamente la certezza sia di non ricoprire la posizione per poterlo fare, tantomeno di poter insegnare alcunchè. Perché l’esperienza mi ha insegnato che finché qualcuno non sbatte contro il muro non si sveglia. E spesso non basta neanche quello: apoteosi della nevrosi, della coazione a ripetere. Senza contare che, se mi metto sempre di mezzo, più che aiutare, rendo l’altro più disabile di quanto non sia, colludendo.
Così mi ritrovo qui, in un ufficio a scrivere durante la pausa pranzo, poiché non ho più neanche il tempo di accendere il computer a casa. E una casa nuova che aspetta solo che le ultime vicende burocratiche siano concluse per essere abitata.
Cambiamenti, auspicati e temuti. Come tre mesi fa. Su questo, poco è cambiato.
Ne auspico altri, dentro di me. Perché non posso continuare a voler aggiustare, sistemare, riparare tutto. Mi condanno da solo all’ergastolo. E tuttavia non ho ancora trovato la forza di rinunciare a questa parte di me.
Quindi è anche per questo che non ho aggiornato finora. Ciò che voglio di più ancora non son riuscito a realizzarlo.
Ancora non ho cambiato me stesso. E nemmeno il mondo.