Nuovi equilibri

Ogni momento della vita implica una certa stabilità, seppur momentanea. Non sono equilibri importanti, ma sono costituiti da un qualcosa che dà sicurezza, che permette di navigare avendo un punto di riferimento al quale fare affidamento. Può essere un certo lavoro, un certo ruolo che ricopri, una persona che hai a fianco, sia essa una amico che un compagno di vita. Senza tale punto cardinale ti ritrovi a navigare a vista, senza sapere nemmeno da dove sei partito, posto che comunque dove arriverai sarà comunque una incognita.

Questi equilibri cambiano di continuo. Si può perdere il lavoro, si può cambiare casa, quartiere, città, si può perdere la persona amata, si può perdere una amicizia, si può smarrire la fiducia in sè stessi. Per alcuni si può trattare anche della collocazione di un mobile in casa, avvicinandosi pericolosamente a una personalità ossessivo compulsiva, propria probabilmente di chi altri punti di riferimento non riesce a trovarne.

Ora… intorno a me, tutto sta cambiando di nuovo pericolosamente.

E dico pericolosamente non perchè questa cosa mi faccia paura, ma perchè è un ennesimo traballare di un equilibrio costruito con fatica. Al quale ero affezionato, e che sicuramente mi mancherà.
Non è la prima volta, e non sarà l'ultima di certo, son troppo giovane per sperare nella totale routine. Probabilmente mi stancherebbe e finirei per romperla io pur di poter ripartire a navigare in libertà.
Ma è un'esigenza che con gli anni inizio a sentire. Quella di mettere alcuni punti fermi nella mia vita, e il fatto di star terminando l'università solo ora, e di sapere che prima di poter contare su uno stipendio fisso saranno necessari ancora molti mesi, non aiuta di certo.

Ma qui traballa tutto, non solo dal lato professionale. Tre anni fa il cambiamento lo volevo con tutte le mie forze, volevo rompere un equilibrio disfunzionale, che faceva star male me e altri. E una soluzione fu quella di trasferirmi, di fare un esperimento, andare a vivere in un contesto che, sia dal punto di vista dei rapporti che formativo, nulla aveva a che vedere con quello attuale.
Cercavo amicizie vere, nelle quali tutto si poteva dire e condividere. Che quando uno stava male non servivano nemmeno le parole. Si percepiva già da come entrava in casa, da qualche accenno durante un discorso. E si sapeva che l'altro era lì, che si poteva contare per qualsiasi necessità sul resto della "famiglia".
Ci si confidava, ci si raccontava, si passavano le ore a chiaccherare nella penombra della camera da letto prima di addormentarsi, non solo per condividere, ma quasi per esorcizzare il timore di svegliarsi il mattino successivo e scoprire che era stato tutto un sogno.

Mi ritrovo ora a pensare che se non è stato tutto frutto della mia immaginazione, poco ci manca.
L'università sta per finire. Per certi versi è la fine di un incubo, visto come sono andati gli ultimi mesi nei quali ho perso anni di vita sulla tesi di laurea, ma è una fase che si conclude inesorabile, che decreta la fine di un ruolo che non ricoprirò più, e al contempo chiede che ne rivesta un altro con la maggior celerità possibile.
Son tornato a Cittadella. L'ho detto, è stato un trauma, più di un mese per metabolizzarlo, e a tratti mi sveglio ancora al mattino immaginando di ascoltare l'Inno e sentire l'esercito rombante degli scooteristi che vanno a scuola in città.
Ma mi manca più di tutto il contesto, quella rete di relazioni costruita con fatica ma che già sapevo sarebbe stata effimera, temporanea. Che si sarebbe allentata negli anni fino a dissolversi.

Anche perchè, qui, è tutto diverso.
C'è una mentalità più individualista, ci si cerca nella maggior parte dei casi solamente per necessità materiali, e non per bisogni più profondi. Si guarda al proprio tornaconto, e il benessere altrui sta in secondo piano al proprio, non allo stesso livello di importanza.
Quando c'è una festa, non si guarda all'occasione o al festeggiato, ma nella maggioranza dei casi si pensa a divertirsi e far casino, senza dare importanza al vero motivo di tale reunion. Poi ovviamente ci sono le eccezioni, ma queste altro non fanno che confermare la regola, regola che mi brucia dentro come fiamma.
E basti vedere gli ultimi mesi, ci si trovava a organizzare principalmente per iniziativa di una-due persone, in una serata che a parte negli ultimi due casi degenerava in un chiacchericcio inconsistente che spaziava dal campionato di calcio a quello di seghe raccontando delle ultime avventure amorose. Che anche qui, è meglio se sto zitto altrimenti innesco il crollo di non so quante dighe…
Per me senza un avvenimento da festeggiare, senza uno o più persone da festeggiare, non ha senso far festa. Non mi diverto se non si divertono gli altri, se non riesco a provare la soddisfazione di vedere la gioia negli occhi delle persone a cui tengo che stanno bene grazie anche agli sforzi di chi si è rotto la schiena per organizzare.
Se si vuole fare festa tanto per fare, far casino e demolirsi, c'è sempre la discoteca. Oppure ci si può imbucare a qualche party come si vede fare in Wedding Crushers.
E tutto questo mi fa soffrire. Mi accorgo che vedo il mondo in modo diverso dalla stragrande maggioranza della gente. Che pensa perennemente a sè stessa, in un delirio narcisistico nel quale l'obiettivo è aumentare il proprio prestigio ai propri occhi, e magari a quelli degli altri, senza dare la benchè minima importanza al benessere collettivo. E visto che la collettività sono anche loro, rimangono costantemente insoddisfatti dei loro sforzi, ma non imparano da questo errore, anzi vi perseverano, in una cecità mentale che ha dell'inverosimile.
Per non parlare di chi ti cerca solo quando non ha meglio da fare, quando non trova le sue prime scelte a disposizione, e che ti volta le spalle non appena queste si fanno vive, senza un cenno di spiegazione o di cortesia. Si passa dal sentirsi regolarmente al quasi nemmeno salutarsi quando ci si incontra. Senza dare nemmeno giustificazioni, che si è costretti a trovare da sè, avviluppandosi il cervello in mille seghe mentali.

C'è chi ha trovato un equilibrio ancora più stabile, o meglio, che si è arrischiato a rompere quello precedente avendo la certezza che il successivo punto di arrivo sarebbe stato ancora più solido.
Perchè sapevano di non essere più soli.
Sapevano di aver incontrato nel loro cammino la persona con la quale condividere qualsiasi cosa, dalle esperienze di tutti i giorni ai momenti indimenticabili, fino all'aria che respirano.
Sapevano che il viaggio va condiviso, e hanno trovato la persona con cui camminare. Navigare a vista per loro non è più un problema. Non importa sapere con precisione dove si va, nemmeno far continuamente riferimento all'ultimo scalo. Se si è insieme, nulla può spaventare. E il matrimonio non è stata una pura formalità come ho visto in altri casi, ma una tappa che si voleva fare. Sulla quale non vi era alcun dubbio.
Pare ieri, che in quella serata di festa nella solita taverna si annunciava che si, i primi due del gruppo convolavano a nozze. Tempo trascorso nell'attesa di un momento magnifico per loro e per tutti gli amici accorsi.
E la gioia più grande è stata vedere la loro felicità, e la loro riconoscenza per chi aveva contribuito, sia con la semplice presenza che con scherzi e giochi, al giorno più bello della loro vita.
Forse è questa la parola di questi giorni: gratuità. Essere grati, senza che nulla sia dovuto nè scontato.
Stare insieme è qualcosa di gratuito. Prescinde da tutto il resto, non si chiede nulla in cambio, si dà e basta, e si ha la certezza che solo nel proprio dare si ottiene la gioia più grande. Senza bisogno di ricevere espressamente qualcosa come controvalore. C'è già quello che vale di più al mondo.
Buon viaggio, ragazzi.

Cambiamenti irradicali nelle rivoluzioni copernicane

I giorni passano, i mesi passano, cambiano gli ambienti, i contesti, cambia la città, cambiano i contatti con alcuni amici… Insomma, è cambiato un pò tutto il mio mondo in queste ultime settimane. Riesco a pensarci a mente lucida solo in questi giorni, dopo che le emozioni forti han lasciato il posto alla ragione, per quel poco che è possibile ovviamente.
Cosa resta del tempo trascorso a Padova? Dell'esperienza iniziata nel 2008, sull'onda della crisi delle amicizie locali danneggiate ma non distrutte dall'incursione di narcisi senza speranza, e della ricerca di novità e di noità sconosciute precedentemente?
Resta talmente tanto che è difficile descriverlo. Resta talmente tanto che è difficile pure tentare di elencare tutte le esperienze e le persone che mi hanno accompagnato per un periodo che per me è stato di crescita personale come forse poche altre fasi della vita.
Restano i ricordi. Quel sentire dolceamaro che caratterizza la fine di ogni genere di relazione. Già, perchè quello che mi manca non è quella casa, è tutto l'intreccio che di lì abbracciava tutta la città. Resta la diversità quasi incolmabile tra quello che ero e quello che sono. Sempre più distante da quel ragazzino che ricordo bene come fosse ieri, ma che mi sembra ogni momento più alieno.
Ho lavorato per anni sui difetti, non era nemmeno necessario mi fossero attribuiti tanto li vedevo chiari quando mi guardavo allo specchio. Ed è un'attività per nulla terminata, ma del cui risultato mi posso finora dire soddisfatto. Mi sono ritrovato poliedrico, più aperto, ho riscoperto il valore della riflessione, dell'apprendimento, dell'ammettere ogni proprio errore e debolezza senza considerarli delle macchie indelebili da nascondere a chiunque. E non posso immaginare cosa mi riservi il futuro, ma sono sfacciatamente ottimista, un punto di partenza ben distante da quel vedere "tutto nero" dei primi anni 2000.

Rimangono aperti degli interrogativi. Sono io, l'illuso, il mona, il babbeo che si ostina a ritenere fondamentale il confronto, l'ammissione dei propri limiti e dei propri sbagli, della propria umanità?
Negli ultimi mesi, come credo mai prima, ho incontrato talmente tante persone convinte di avere la verità in tasca che questo dubbio vacilla. Sono io in errore? Sono davvero un cretino a considerare inesistente il vero, poichè sempre frutto di considerazioni umane e quindi fallaci? Sono davvero un pervertito a considerare inconoscibile la realtà oggettiva, poichè sempre e comunque sotto il filtro della mente dell'uomo?
E non pecco forse anche io quando prendo di petto l'arroganza, il non mettersi in discussione, il ritenersi detentore del verbo, comportamenti questi che vedo continuamente attorno a me?
Certo però faccio una fatica spaventosa a sopportarli. Li vedo come uno dei peccati peggiori di cui ci si possa macchiare, poichè alla base di ogni altra possibile malefatta. Gli anni trascorsi a studiare psicologia hanno tentato di insegnarmi che queste strategie sono necessarie ad alcuni per proteggerli dalle proprie debolezze, ad altri per soddisfare il proprio gigantesco narcisismo, ad altri ancora per sentirsi al centro dell'attenzione. Ma forse sono tutte facce della stessa medaglia. O forse no, non spetta a me giudicare, altrimenti torno al punto di partenza.

Ma non riesco a rimanere impassibile un minuto di più quando vedo chi ritiene di essere il più figo, di essere il migliore, di potersi permettere di scegliere per gli altri e di ritenere ovvio l'essere pure lodato per questo, di giocare con i sentimenti altrui frequentando più partner allo stesso tempo – ovviamente l'uno all'insaputa dell'altro – e ripudiandoli quando non più necessari, per poi tentare di riprenderseli quando si rendono conto di essere tremendamente, e umanamente, SOLI.
Si circondano di persone più deboli, o meglio, più ingenue, che nella loro ingenuità e bonarietà amano essere guidate, istruite, soldati al servizio di parodie di generalissimi, che si lasciano convincere a seguirli in tutto e per tutto, che hanno quasi bisogno morboso di un maestro da servire e riverire.
Per non parlare poi di coloro che si inventano movimenti, liste elettorali e sedicenti partiti innovatori che altro non fanno che proporre ogni volta la stessa minestra trita e ritrita, ma che risulta appetibile ai quei sempliciotti che necessitano di un DVX cui offrire la vita nella Guerra di Libia. Che fondano decine di spazi sul web, inviando richieste di adesione quasi quotidianamente, per farcirti poi la mente di slogan quali "Sappiamo cosa è giusto, sappiamo cosa è sbagliato, siamo una luce di speranza"
Manca solo che fondino una religione, tanto si considerano perfetti. Ah, dimenticavo, ovviamente ne sarebbero le divinità.

Vedo la riproposizione di quanto affrontato due anni fa ormai. In un periodo, questo, nel quale ancora pensavo che non vi potesse essere un qualche cambiamento nella mia cerchia di amici, costretta a riverire un Dio, ridotta a una comunità di credenti dalla quale gli eretici dovevano essere cacciati, anzi arsi sul rogo delle infamie gratuite.
E per fortuna mi sbagliavo. E quanto son contento di essermi sbagliato.
Io la mia parte l'avevo fatta, toccava agli altri. Non credevo fossero capaci di destarsi da quella letargia. E invece… quanto ho gioito nel vedere le persone a cui tenevo riprendersi la propria Vita. Svegliarsi da quell'esistenza limitata dal torpore.
Credevo che il vaccino fosse eterno. Ecco, altro errore. Non posso gioirne stavolta, tale mia speranza era troppo grande. Ho l'impressione invece che si debba essere sempre circondati di individui-dio, quasi a ricordarti che sei solo un uomo, fallace, e che se vuoi essere un punto di riferimento per qualcuno devi andar fiero del tuo essere semplicemente umano.
In quei giorni di festa mi considerai un soldato senza più guerre da combattere. Oggi penso che forse invece non vi sono soldati, non vi sono nemmeno battaglie, ma è un'unica lotta contro la semplice esistenza. Per conquistarsi il proprio spazio, ma soprattutto per permettere ad ognuno di riappropriarsi della propria Vita.

Ho l'impressione che potrò riposarmi solo tra – spero – molto molto tempo. E che quel riposo sarà l'ultimo.
La speranza ora è di non fare questa parte del viaggio in solitaria. E mi auguro proprio che questa mia fiducia non si riveli, anch'essa, uno sbaglio.

Ministero dell'Individualismo e della Semplificazione (cognitiva)

Nello scorso fine settimana ho rifatto l'esperienza di essere scrutatore ai seggi.
Ricordo bene, la volta scorsa ne sono uscito con l'amaro in bocca, dopo aver visto una partecipazione decisamente bassa rispetto alle aspettative, un discreto numero di schede nulle con disegnati sopra cazzi giganti o con sopra scritte parolacce, e una rissa finale per un voto da assegnare a due candidati della medesima lista. Si, due rappresentanti di lista erano passati alle mani pur essendo nello stesso schieramento.
Abbastanza disarmante.
Ricordo bene che se l'esperienza in sè mi aveva fatto apprezzare il valore della democrazia, la fase dello scrutinio mi aveva fatto venire il voltastomaco.

Cosa è cambiato, stavolta?
Qualcosa di certo, ma non mi è sembrato si sia verificato un mutamento davvero sostanziale.
Erano referendum abrogativi. Non prevedono si faccia una legge, nemmeno di proporla, ma servono solo a cancellarne una.
Certo, sono soddisfatto del risultato. Lo volevo, e vado orgoglioso dell'aver fatto anche io la mia parte, cercando di sensibilizzare amici e conoscenti su alcune questioni di vitale importanza per la vita collettiva. Ma ancora sento che non ci siamo.
Non si è proposto un cambiamento. Si sono cancellate delle leggi ad personam, che con l'interesse collettivo nulla avevano da spartire, ma coi referendum non si è proposta un'alternativa.
Perchè?

Siamo figli del berlusconismo. Volenti o nolenti, ce ne hanno imposta la natura, e questa è stata da noi interiorizzata acriticamente.
Il berlusconismo non è solo l'essere a favore di quel ducetto che stavolta invece di aggirarsi tra Predappio e Salò ha le sue basi ad Arcore e Palazzo Grazioli. E' tutta la mentalità, dualistica, che ci gira attorno.
Oggi non ha nemmeno più senso parlare di sinistra o destra.
O sei berlusconiano, o sei antiberlusconiano.
Ma mettiamo che, finalmente, il Partito per la Demolizione del Silvio riesca ad averla vinta. La domanda è: E POI?
Cosa ci sarà dopo di lui?
Proposte?
Non vorrei risposte dalla politica, che spesso ci infarcisce con risposte purchessia. Vorrei le risposte della gente. La stessa gente che ho attorno, che quando parla di politica parla o a favore o contro berlusconi, ma che non azzarda mai nemmeno iniziare a delineare il futuro.

Non c'è futuro.
Non ci può essere futuro, finchè non ci liberiamo di una mentalità simile.
Dualistica. Semplice. Frutto di una semplificazione cognitiva spinta ai massimi livelli.
C'è crisi. Le difficoltà sono sempre di più. O meglio, è sempre più difficile prendersi carico di una questione e lavorare per risolverla.
E' fatica.
E cento questioni oggi, cento domani, non riesci nemmeno più a contarle, cosicchè si appesantisce la mente, e l'unica soluzione è SEMPLIFICARE.
Ridurre tutto a un dualismo. Matematico. Frutto della fisica classica.
Uno, Zero. Silvio si, silvio no. Destra, sinistra.

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
Sono passate migliaia di anni, ma in questa frase c'era già tutta la saggezza sulla natura umana.
Noi riusciamo a gestire benissimo la convivenza di stati opposti. Ma ovviamente il dispendio di energie per tale lavoro mentale è molto più elevato rispetto al pensare in binario come le macchine.
Di conseguenza quando le difficoltà percepite si assommano alla pigrizia acquisita, il risultato è drammatico.
Regrediamo. Torniamo a funzionare in binario. Diventiamo delle macchine.

L'individualismo è figlio di questa semplificazione.
E' più semplice pensare per sè, rispetto al lavorare assieme per un progetto.
E' più semplice cercare di raggiungere l'interesse privato e individualistico, invece di mediare affinchè il benessere sia collettivo.
Siamo immersi in una cultura di senso comune, nella quale chi fa da sè fa per tre.
E gli altri? Dove li abbiamo lasciati?
Presi dalla nostra vita personale, dalle nostre priorità individuali… l'altro dove è finito?
Eppure anche i film ci ricordano ogni giorno che "l'interesse dei molti vale più di quello di pochi… o di uno".
Già… una frase diventata davvero fantascienza.

Una serata.
Venti e passa persone sedute a un tavolo. Si brinda, si fa festa. Ci sono un paio di festeggiati, ma l'interesse non è centrato su di loro. L'interesse è centrato sul gruppo, con ognuno cerca di fare la propria parte perchè tutti si divertano, tutti si sentano a proprio agio. Ognuno con il suo ruolo conferma l'appartenenza sia propria che degli altri alla collettività.

Altra situazione.
Venti e passa persone sedute a un tavolo, si brinda e si festeggia, ma una nota stonata prende lentamente piede. Qualcuno, desideroso e bisognoso di attenzioni, calamita su di sè ogni attività, si intromette in tutti i discorsi a sproposito, fa battutacce allo scopo di elevare l'interesse per la Sua presenza a discapito di ogni persona non si presti a questo suo gioco. Arrivando infine a desiderare ad alta voce che questi se ne vadano a casa il prima possibile.

Dov'è qui l'interesse per i molti? Quanto pesano qui gli interessi individuali rispetto a quelli collettivi?
Perchè ci si è ridotti a pensare in una logica di "odi aut amo", nella quale o si è a favore o contro di questi? Perchè non si riesce più a condividere?

La contagiosità dell'individualismo è spaventosa. Figlia della semplificazione estrema, nutre questa a sua volta. Così dualismo e narcisismo patologico si alimentano a vicenda.

Eppure la storia dovrebbe averci insegnato che proprio il rompere questo circolo vizioso, e far ripartire un processo di crescita collettiva, è l'unica maniera per impedire che questi mali possano trionfare.
E' già successo. Ma avremmo dovuto imparare qualcosa dai nostri errori.
Quella volta ne siamo usciti. Ma perchè dobbiamo ritrovarci ogni volta a combattere una lotta identica alla precedente, senza nemmeno ricordare come avevamo fatto?

Non c'è futuro.
Non ci può essere futuro, finchè non ci liberiamo di una mentalità simile.
Finchè non impariamo a ricordare una volta per tutte che "l'interesse dei molti vale di più di quello dei pochi o di uno."
Finchè non riscopriamo il piacere della complessità, dell'odiare e amare allo stesso tempo, del pensare agli altri e contemporaneamente a noi stessi.
Si, è un casino. Ma la nostra mente PUO' farlo. E' questo che distingue noi uomini dalle macchine. Che ci rende unici.