2012. Meno sereno di un tempo. Ma non per questo stanco.

E siamo all'ultimo giorno di questo strambo 2011. Un anno sicuramente per me migliore del 2010, che nemmeno l'avevo sentito, che mi era scivolato via senza che nemmeno me ne rendessi conto.
Un anno che già sapevo sarebbe stato più interessante. Ci voleva poco, del resto. Sarebbe stato l'anno della fine degli studi universitari, del ritorno a casa da Padova, dell'inizio del tirocinio. Già questo sarebbe stato sufficiente. E invece è stato ancora più denso. E di riflessioni e progetti ne ho messi molti in cantiere.
Quest'anno lo ricorderò in particolare per l'aver incontrato tre parole sul mio cammino: individualismo, indifferenza, ipocrisia.
E così, mentre qualche anno fa un governo si insediava al suono delle sue "tre I", si facevano strada questi altri tre termini che, nonostante ne condividessero le iniziali, incarnano significati terribili.
Non ritengo che una mentalità centrata su queste parole sia diventata dominante a causa del Berlusca e del suo scellerato modo di distruggere la società e la Politica. Piuttosto, una certa mentalità strisciante vi si è incarnata ed è stata sia madre che figlia della società contemporanea.

Accendiamo la televisione ogni giorno, e si vedono sedicenti "io-so-tutto" che proclamano il verbo unico, che danno giudizi su tutto e tutti, senza considerare il parere altrui, rifiutato invece in toto. L'altro non vive, se esiste è solo un'appendice narcisistica di chi alza di più la voce. Esiste solo l'individuo, non la collettività, non il "popolo". E chi parla di popolo, lo fa solo per dare peso ai propri pensieri, attribuendogli le stesse proprie idee proprie, in una diffusione di pensiero che sfiora la psicosi. Qui sto pensando alla maggioranza dei "leader" politici, che si sono creati un seguito solo per essere riusciti a plagiare un certo numero di individui talmente passivi da poter essere considerati sterili.

L'individualismo è diventato la mentalità dominante, o lo è sempre stato? Eppure ripenso a qualche anno fa, o meglio, a qualche decina di anni fa. Ricordo bene, il bene comune era ancora ricercato, sebbene si avvertisse già un certo declino in termini di individualismo. Ricordo che, anche senza cellulari e senza essere connessi alla rete ogni istante, ci si cercava, ci si confrontava, si cercava di trovare un punto di accordo comune, senza arrendersi al pensiero unico, e che i problemi degli altri erano tuoi e che quelli tuoi erano condivisi con gli altri. Ci si aiutava di più, ci si stava più vicini. Ci si amava di più.

Forse me lo sono solo sognato…
O forse ho visto quello che volevo vedere, e ora vedo più nero di quanto sia..?
Certo che la mia cerchia di coetanei non fa che confermare che queste "tre I" sono dominanti. L'ipocrisia finora l'ho solo accennata, ma è proprio nel mio cerchio più stretto di conoscenze che vedo più splendente questo sole nero.
"Fare finta di", lasciare tutto al "quieto vivere", non affrontare i problemi, o meglio, fare finta di nulla e insistere a credere che sia tutto a posto solo per non turbare un equilibrio che in realtà non esiste. Mentire spudoratamente, imbrogliare, solo per nascondere meglio le proprie debolezze e i propri errori, sbattersene della sofferenza altrui perchè non è propria, e perchè dal confronto con la sofferenza altrui se ne esce sollevati. Usare gli altri solo per proprio tornaconto, e al contempo demonizzare i propri stessi comportamenti.

"Tutto intorno a te", insomma. Tutto riferito a sé stessi.

I manuali dicono che quando si riferisce tutto a sé stessi si è in presenza almeno di un disturbo di personalità, seppur lieve.
E più ci penso, più l'impressione di essere inserito in un ambiente altamente disfunzionale è decisamente forte.

Forse tutto questo è solo un mio delirio. O forse no…
Ma confrontare questa società, nella quale mi sento inserito ora, con l'isola felice che avevo con fatica costruito con degli amici in quell'appartamento, non dà spazio ad altre interpretazioni. Certo, sapevo che era una cosa temporanea, ma almeno ho la soddisfazione di aver contribuito a lasciare dei ricordi piacevoli, sia in me che in loro.
E so che tutto questo può non essere solo un sogno, ma che un progetto di questo tipo può essere realizzato. Forse anche in modo duraturo.

Al contempo sto confrontando il contesto nel quale sono inserito con un altro nel quale sto appena iniziando a farmi strada.
Ho iniziato il tirocinio. Sono tirocinante psicologo in una comunità psichiatrica.
E il contatto sia con i pazienti, sia con gli operatori, sia con gli psicologi, si sta già rivelando una palestra forse migliore di quella che ho lasciato a Padova.
Già mi sto facendo l'idea che la "comunità terapeutica protetta" non sia a protezione della società dai folli, ma a protezione dei folli dalle ingerenze e dalle intolleranze della società. Che, in gran parte, non riesce a tollerare la differenza, a tollerare l'altro. Affogata com'è nell'indifferenza, nell'individualismo. E nell'ipocrisia di considerare ogni matto uguale all'altro, riducendoli a una razza "altra" da se, perdendo di vista la creatività, la vitalità, l'originalità e il cuore di ogni folle, dando a tale termine una valenza estremamente negativa, atta a emarginarli.

Paradossalmente una volta compresi i folli si rivelano invece molto più umani di molti "sani".
Ciò dovrebbe far riflettere…

Sul fatto che tale ambiente lo sto percependo come un ambiente a tratti più salubre del resto del mondo.
Qualcuno dirà che è proprio perchè sono matto da legare. Fosse anche, non mi cambierei con nessun altro "sano" di mente. Se ritenere che l'individualismo, l'ipocrisia e l'indifferenza sono i disvalori peggiori della società odierna vuol dire essere matti, allora io sono proprio matto da legare, da EKT, da terapie farmacologiche da cavallo.
Se essere sensibile alle sofferenze dell'altro, se non riuscire a ignorare il dolore esterno, vuol dire essere incapace di "farse i cassi propri" vivendo tranquillamente la propria esistenza ed essere un deficente, sono contento di essere deficente e di essere rimbambito.

Questi aspetti di me, me li voglio tener stretti, non voglio lasciarli andare con l'età. Forse mi renderanno la vita più dura rispetto a chi ignora l'altro nel suo delirio narcisistico e nell'ipocrisia.
Ma voglio continuare a guardarmi allo specchio al mattino e alla sera senza sputarmi in faccia. Sapendo che questa vita non è inutile, non è una passiva esistenza trascorsa su un pianeta morto.

Ecco l'augurio che voglio fare a tutti, me compreso.
Nel prossimo anno ci aspetteranno nuove sfide. Il 2012 sarà un'anno di difficoltà, economiche e sociali, probabilmente senza precedenti per i giovani della mia generazione. Dovremo tirare la cinghia, tirarci su le maniche, lavorare come mai. Romperci la schiena.
Credo che se lo faremo senza rinchiuderci in noi stessi, senza pensare solo a noi stessi, senza essere falsi verso gli altri e verso di noi, riusciremo a venire a capo di qualsiasi situazione critica. E a trasformarla in opportunità di crescita e di miglioramento, per noi e per tutti.
Non voglio dire che sia facile. Ma non è nemmeno impossibile. E soprattutto, sono fermamente convinto che ne valga la pena. Possiamo fare la differenza per il nostro domani.

Cinque anni… dalla crisi all'opportunità… e congedo.

Sono ormai trascorse due settimane dal fatidico 19 ottobre. Una fase si conclude, un'altra inizia. E inevitabilmente ripenso a tutto il percorso di questi cinque anni, da come l'ho scelto, a chi ho incontrato, a dove sono giunto, fino a… e adesso?
Ricordo benissimo quella serata al Samsara dell'estate 2005, pare ieri, nella quale tra una birra e una sigaretta con un amico storico, di quelli che ci sono e saranno sempre, maturavo la scelta di dare una svolta alla mia vita, di renderla tale e non più una semplice esistenza.
Gli anni subito precedenti mi avevano svelato aspetti della personalità umana per me assolutamente nuovi. Avevo ricevuto pedate sui coglioni di intensità non indifferente, e non ero riuscito a rialzarmi, abituato com'ero a pensare in binario, a vedere tutto o bianco o nero, buono o cattivo, sano o malato. Non immaginavo nemmeno che le sofferenze interiori potessero pervadere così a fondo una persona, sia nell'animo che nel corpo. Portandoti sulla soglia del burrone, fino a lanciartici, e lasciarsi cadere giù, sperando di raggiungere il fondo quanto prima.
Volevo capire, ma soprattutto mi rendevo conto che tutte le certezze sulle quali avevo basato la mia esistenza erano fallaci, illusorie. Mi rendevo conto che quel lavoro stabile che avevo agguantato sulla scia di un destino già scritto non mi offriva nulla di più che un conto in banca. E desideravo altro.
Volevo di più. Volevo fare di più.

Così, qualche mese dopo, a marzo 2006, meditata bene la decisione, consegnai al capo una letterina per la quale mi maledì per settimane. Era l'independence day, fanculo alla vecchia esistenza, ricordo che lo festeggiai con una grande bevuta circondato da tutti gli amici storici, di quelli che c'erano e ci saranno, negli alti e bassi, sempre e comunque.

Arrivò settembre di quell'anno, iscrizione e primi esami, e la sensazione continua di "ma sono sicuro di quello che sto facendo?". Domanda che ignoravo, o alla quale rispondevo con un saccente "certo che sono sicuro", quando invece sognavo la notte di essere in ufficio. Gli amici mi spronavano, qualcuno mi diceva "te si stà matto a mollare un lavoro sicuro come queo!", ma un pò per testardaggine, un pò per curiosità, si superavano i primi scogli, i primi esami, mentre tessevo nuove relazioni, alcune delle quali fondamentali per quello che sono ora.

Passarono i mesi, poi gli anni, mi scontrai con le medesime realtà che già avevo affrontato in passato, ma ora vedevo tutto sotto nuove luci. Se prima potevo adirarmi per alcune cose, ora mi scivolavano come pioggia su una superficie idrorepellente, mentre altre che prima non riuscivo a comprendere a fondo mi facevano soffrire e ribellare come e più di un diavolo.
Già, qualcosa stava cambiando. Non al di fuori, i problemi ai quali assistevo e con i quali dovevo misurarmi erano sempre uguali, la storia si ripeteva sempre inesorabile. Era al mio interno che stava cambiando tutto.
Valori praticamente sconosciuti, o meglio, sopiti, emergevano con una forza spingendomi a prendere decisioni e parti che prima avrei semplicemente evitato perchè esporsi era pericoloso. Mai sbilanciarsi troppo, si rischia, e poi il mondo rimane comunque uguale, non cambia mai niente.
Ora rispondevo: fanculo, io tra qualche decina di anni creperò come tutti, e non voglio lasciare questo posto un cesso come l'ho trovato, riuscissi anche a spostare una sola foglia di un millimetro almeno non avrò vissuto invano.

Le amicizie sono state fondamentali in questo processo. A Padova ho conosciuto persone che, nonostante la giovane età, sono state dei veri maestri nell'aiutarmi a costruire e percorrere una via. E in appartamento poi, legami che si sono rafforzati, terreno di confronto reciproco. Una dimensione della quale sento un pò la mancanza, sebbene sia ben cosciente che come tutte le fasi della vita anche quella non sarebbe durata oltre gli studi universitari.
E pure qui le amicizie sono state fondamentali, le persone incontrate, quelle perse, quelle che nonostante tutto c'erano e ci saranno, quelle che non ci si vede quasi mai ma col pensiero si è sempre vicini, quelle che percorrono cammini accidentati ma non crollano mai.

E dopo cinque anni…. cosa resta?
Resta che sono davvero convinto. Ho toccato con mano il cambiamento. Ho provato cosa sia una crisi, ho provato cosa voglia dire risollevarsi semplicemente alterando la forza di gravità.
Ho visto che davvero il mondo può cambiare, ma che il primo passo è cambiare sé stessi. E' credere che sia possibile un futuro diverso, non arrendersi, non cedere alle difficoltà della vita, alle cattiverie o alle pugnalate. Che quando tutto va storto… è sufficiente girarsi e guardare il mondo diritto da un'altra prospettiva.

Questo ho compreso, in cinque anni. Che la psicologia non è, come dicono in tanti, una perdita di tempo, tante chiacchere e niente di concreto, un'astrazione mentale fuori dal mondo reale.
Che da una crisi si può innescare un cambiamento. Che la fine non arriva mai. Che basta girarsi, e si vede sempre un nuovo inizio. Che basta aprire gli occhi per incontrare un mondo in cui tutto è possibile.

Ora, a distanza di cinque anni, il percorso sembra giunto a un termine. In realtà, vedo già un nuovo inizio davanti a me, e non vedo l'ora che arrivi inizio dicembre.
Ci sarà chi non vedrò più, chi rimarrà come sempre al mio fianco, nuovi compagni di viaggio. Dove finirò non lo so per certo. Ma non conta. Quello che vorrei lasciarmi dietro, e donare a tutti quelli che conosco, è quello che ho scoperto… volete cambiare il mondo? Cambiate voi stessi. Spingete per il cambiamento. Non mollate mai nei momenti di sconforto, siate ottimisti. Magari non costruirete nuove città, non scoprirete nuovi mondi. Ma forse riuscirete a donare, anche a una sola persona, un momento felice. E concludere un domani il viaggio sapendo di non essere solo esistiti, ma di aver Vissuto.

Tesi di laurea… Emozioni… e Vita

Più di qualcuno mi ha chiesto di cosa parli questa benedetta tesi di laurea che mi ha portato via mesi se non semestri di vita, e che in particolare mi ha fatto patire nelle ultime settimane di settembre.
Bè, è un pò complicato spiegarla in due parole, però ci provo. Vediamo cosa riesco a spiegare con un linguaggio da "uomo della strada" – che poi è la cosa che mi riesce meglio, secondo qualcuno.
La mia tesi tratta del lavoro emozionale dei volontari di Protezione Civile, partendo da una ricerca svolta nel contesto del terremoto dell'Aquila del 2009. Ora… lasciando da parte tutto ciò che ho vissuto e raccontato su quei mesi… cos'è sto "lavoro emozionale"?

E' un concetto più semplice di quanto si pensi.
E' quell'impegno richiesto per ridurre una dissonanza emozionale, cioè quella differenza percepita tra le emozioni provate di fronte a un determinato oggetto, persona o situazione che sia, e le emozioni che sono reputate corrette secondo la norma sociale inerente a contesto e ruolo rivestito.
Troppo difficile? Facciamo un esempio terra terra…
Un esempio di dissonanza emozionale è riscontrabile ad esempio in professioni nelle quali il contatto con l'utenza è fondamentale, come il maitre o la cassiera, per non parlare del medico o dello psicologo, ottimi esempi per le professioni di aiuto. Metti che questi si alzi con la luna storta, che abbia litigato col partner o abbia semplicemente un gran mal di testa.
Può incavolarsi e rispondere sgarbatamente al paziente?
Può odiare il proprio capo perchè gli fa richieste impossibili da soddisfare?
Può sbattere fuori dall'hotel un cliente rompiscatole, che l'ha insultato e messo in difficoltà magari davanti a colleghi e altri clienti?
La risposta è semplice: NO.

Una risposta così semplice e scontata da risultare banale. Non ci poniamo nemmeno la domanda "perchè bisogna far così?" Oppure possiamo porcela, e risponderci "è una norma aziendale, altrimenti perdi il cliente, altrimenti vieni licenziato", ecc…
Ma con domande e risposte così non ne usciamo. Perchè è una problematica che investe anche contesti nei quali queste prescrizioni non sono scritte, non si è obbligati da nessuno a rispettarle. Come ad esempio il volontariato.
Il volontario può scattare in piedi, mandare letteralmente in mona assistiti, colleghi e perfino superiori, come anche prendere e mollare l'attività di punto in bianco senza ripercussioni economiche o fisiche.
Sono le norme sociali che lo spingono a nascondere la propria rabbia, la propria frustrazione, le proprie paure, e talvolta anche l'amore, il calore, la propria gioia.
Ricopre un ruolo, scelto, e non può disattendere ciò che gli altri si aspettano da lui. Che è poi anche ciò che lui si aspetta da sè stesso. Se lo facesse sarebbe esiliato dalla comunità, almeno in senso metaforico. Sarebbe estromesso dal ruolo, e perderebbe anche la fiducia in sè stesso e nelle proprie capacità.
Ma adattare le proprie emozioni alle richieste emozionali di un ruolo non è impresa da poco. Comporta uno sforzo spesso immenso, per nasconderle o per modificarle. Ecco cos'è il "lavoro emozionale". Una impresa per ogni volontario, per ogni lavoratore, per ogni operatore di settore.

Mai sentito parlare di "burnout"?
Ecco, il lavoro emozionale negativo può sfociare in burnout, o comunque accelerarne e peggiorarne il decorso.
Puoi scoprirti demoralizzato, depresso, senza più energie nè voglia di andare avanti, desideroso di mandare al diavolo tutto e tutti.
Puoi provare cinismo, depersonalizzazione, fastidio per il mondo.

Ecco… qui si fermano le considerazioni negative. Perchè il lavoro emozionale può essere indispensabile per stare nel mondo assieme agli altri. Ma può essere svolto non solo in solitudine, che è la modalità che può portare a conseguenze negative ma nelle relazioni con gli altri. Strategia questa che riduce di molto tale rischio.

Avete mai notato come dopo una grande incazzatura si cerca qualcuno con cui parlare?
Come dopo una litigata si cerca spesso di riconciliare e rimettere assieme i pezzi? E ci si scusa anche di ciò che si è certi di aver provato, ma tale dietrofront così radicale è pure percepito come piacevole? Se non è "lavoro emozionale" questo…

E qui termina lo spazio che ho deciso di dedicare alla mia tesi. Perchè parlare di LAVORO EMOZIONALE senza tirare in ballo le difficoltà di questo periodo è impossibile. Ne va della mia VITA. Ne sono eroso, in questo momento.

E' proprio la RETE DI RELAZIONI che manca in questo periodo.
Mi rendo conto che la gran parte delle persone che ho attorno sono per me spettri inconsistenti. Ci sono quando è ora di far festa, di divertirsi, quando non vi sono alternative al trovarsi e stare assieme… ma non quando le necessità si fanno più profonde, quando il malessere ti avvelena l'anima notte e giorno.
Non ci si cerca perchè si prova piacere nello stare assieme. Ma si prediligono alternative di ogni genere. E quindi la sensazione di essere una ruota di scorta diventa una realtà.

E' pesante, lo so. E temo non riguardi solo me. O che almeno tale consapevolezza presto o tardi contagerà qualcun altro.

E poi… per tornare alla "norma emozionale"… la MALEDETTA MORALE.
L'ultima cosa che vorresti sentire in momenti come questi.
Il dover fare qualcosa non perchè ne sei convinto, ma perchè "si fa così", perchè "è giusto così". "Forse ma forse ma si"????
Ma chi mai l'ha detto? Ma chi mai ha scritto queste cazzo di regole?
Chi cazzo si può permettere di decidere a priori cosa è giusto, cosa è sbagliato, cosa va fatto e cosa no, chi ritenere affidabile, chi scartare perchè ti sta sui coglioni, chi mandare al diavolo perchè ti ha trattato ripetutamente di merda, chi ricambiare con la stessa moneta, chi amare?
Per citare Nick, "Nde in cueo tuti quanti"!! E lo rivolgo di cuore ai falsi moralisti, a quelli che ritengono di avere la verità o il verbo in tasca. Maledizione, se avessi in mano una padella ve la sfonderei, quella testa piena di voi stessi che avete!

Ecco… queste sono le mie condizioni attuali.
Sono stanco, demoralizzato, depresso a tratti.
Incazzato. Cinico. Fastidioso come una cimice che ronza in camera in piena notte.
Sono sfinito. Vorrei riposare, ma nemmeno il tempo mi è alleato. Le lancette corrono, implacabili.
E, nonostante tutte le persone che ho intorno, mi sento SOLO. Costretto ad affrontare il mio lavoro emozionale di tutti i giorni in totale solitudine. Perchè non ho a fianco le persone di cui davvero ho bisogno. Ma amici per i quali sono un perfetto sconosciuto.
Vi prego, almeno non tediatemi ancora con la morale del giusto o sbagliato, del "si fa così", delle "conseguenze negative se fai cosà". La conosco fin troppo bene, mi ci avete sfondato i timpani e i coglioni, ma c'è bisogno di dare un taglio netto a questa mania del quieto vivere. Voglio poter prendere le mie decisioni e fare le mie scelte in totale libertà, rispondendone solo a me.
La morale… può baciarmi le chiappe allegramente.