Cambiare. Abituarsi. Restare.

Ci sono cose che cambiano negli anni. Situazioni che si evolvono, momenti che passano.
Altre, rimangono immutate, quasi a determinare chi sei. E a volte vorresti che queste finissero, e che fossero altre a fermarsi.

L’argomento dell’altra sera. Certo, non in termini così espliciti. Sarebbero servite ben più birre…
Ma il succo è quello. E’ passato un altro anno, ma siamo sempre noi stessi, o qualcosa è cambiato? E se qualcosa è cambiato, chi è stato l’autore di tale cambiamento?
Parlo al plurale, perché in quella riflessione s’era in due. Ma ora voglio fare i conti con me, e con quelli che sono stati i pensieri di questo inizio duemilaquattordici.

Di nuovo in stallo, eh. Bel modo di finire, e bel modo di iniziare. Se il capodanno significasse qualcosa per me, ovviamente.
E tutto perché ne ho paura. Emozioni, sentimenti… amo viverli, e al contempo me la faccio sotto. Così mi son ritrovato a pensare a dove vorrei andasse il cuore, e la risposta è stata di nuovo quella. Già, passano gli anni, ma ora che riesco a guardarla, vedo che la bussola punta sempre in quella direzione.
Inutile non volerla seguire, inutile girare a mano l’ago magnetico. Continua a girarsi verso nord, senza poterlo controllare.
Così, i sensi di colpa ti attanagliano. Hai il terrore di prendere in giro, di essere tu stavolta lo stronzo. E quindi, è quasi stata una cortesia quel silenzio e quella chiusura che ha accompagnato l’inizio d’anno.

Il cuore va dove vuole. La testa ragiona, ma in questo campo, non può che soccombere.
Credo dovrò farci il callo.

Tuttavia…

Se dovessi guardare a questo momento, e basta, direi che quest’anno si preannuncia interessante. Diverso, e impegnativo. Sotto tutti i punti di vista. E sembra già vi siano vagiti di cambiamenti importanti. Esattamente ciò che dicevo ieri sera.

Ma.
Ma se riguardo indietro, se sfoglio le immagini che conservo gelosamente nella mia memoria, se lascio i pensieri fluire nel tempo come in un rivivere gli ultimi dodici mesi, mi accorgo di quanto questi mesi siano stati pieni.
Solo a pensare… lavoro, esame di stato, rinnovare e far girare quel nuovo volano aziendale, nuove amicizie, nuove esperienze… una nuova casa…

Mi ci sto abituando, pian piano.
Momenti di tranquillità, a lungo desiderata, che si alternano a istanti di profonda malinconia.
Non di solitudine. Non di quella sensazione che temevo, e che invece ho l’impressione fosse solo una paturnia difensiva.
Malinconia. Per un periodo finito, per una vita che ormai è passata. Per momenti in famiglia, con mamma e papà, che in qualche modo sono giunti al termine.
L’ho percepito come un lutto. Di fatto, parte di me è cambiata, qualcosa è andato, qualcosa è arrivato.

E non solo io.
La prima frase di mio padre, la prima sera che ero fuori casa, finché cenava con mamma.
“E adesso, con chi litigo io?”
Così che diventa anche comprensibile il fatto che sia nervoso oltremisura, che rompa le scatole come non mai. Rabbia, inespressa e inesprimibile. Non accettabile. Umana, tuttavia.

In ogni caso…
Ora sono qui. Faccio i conti con i cambiamenti, con le reazioni mie, dei miei genitori.
Al contempo, mi guardo attorno.
Vedo altre situazioni, immutabili quanto di sofferenza. Coazione a ripetere, non si riesce a scardinarla.
Non mi fa per niente piacere vedere che ti sei, di nuovo, imbagolata come mesi fa. Fotocopie, istanti di vita duplicati. Il tempo, sembra essere pietrificato.
No, non è che non mi faccia per niente piacere. Mi fa proprio male.
Ma è una cosa mia, devo farci a pugni io. Finché insisto a esserci, questo è lo scotto da pagare.

E il problema è questo. Voglio, continuare a esserci.

Speranza

A volte mi chiedo chi me lo abbia fatto fare. Di essere così testardo, di crederci
sempre. Di ritrovarmi sempre col fiatone, stanco, di non darmi mai tregua. In effetti potrei considerarmi un pò un pirla, a non permettermi un attimo di respiro. Ma anche no.
C’è un motore che mi manda sempre avanti. Che mi ricorda che, una volta che hai tracciato una strada, devi anche percorrerla. E la fantasia, e la voglia di progettare e creare, quella no che non posso tenerla a freno.

L’avevo scritto circa tre mesi fa, in occasione di quell’evento tragico. Cosa era successo a me quasi undici anni fa, cosa mi aveva fatto arrivare sull’orlo del precipizio.
Quello che non avevo scritto è cosa mi aveva insegnato, in che senso avevo imparato a curare le mie ferite.

Sperare. Guardare sempre avanti, ma senza paura, piuttosto con speranza. Certo, ciò mi ha reso per certi versi un Don Chiscotte da manuale. Poi però mi guardo attorno, vedo ciò che ho creato, ciò che ho contribuito a creare, con questa mia testardaggine, e il pensiero di essere solo un cretino che lotta coi mulini a vento mi fa sorridere.

Perché è questo che ho deciso, coscientemente di essere. Prendere coscienza del luogo dal cui provieni, per decidere una destinazione, e il percorso per raggiungerla.

Progettare. Non limitarsi a sognare, non limitarsi a sbattere i piedi davanti a un obiettivo che non provi in alcun modo concreto o realistico a raggiungere.

E’ stata dura. Negli ultimi giorni prima di varcare questa soglia, mi rendevo conto delle mie resistenze, dei miei timori. Della fatica, di fare questo passo. Della certezza che, una volta aperta quella porta, nulla sarebbe stato più come prima.
Essere combattuto. Tra la voglia di farlo, e il timore di buttarsi. Tra il senso del dovere, e le proprie incertezze. Tra il nido sicuro ma limitante, e il futuro incerto e immenso.

Alla fine mi ci son quasi costretto. A modo mio.
Pianificare come, organizzarsi le fasi del trasloco, delegare ciò che non riuscivo a fare, sacrificare il poco tempo libero a disposizione in questi ultimi metri tra me e casa mia.

Casa mia.

Sono già passati quattro giorni, ogni ora che passa la sento sempre di più come familiare e indispensabile, eppure mi sembra ancora così strano. Aver fatto quel passo rinviato così a lungo, aver fatto quel passo che tanti trentenni adolescenti in eterno rimandano a tempo indefinito.

E ora speranza. Si, perché mi rendo conto sempre di più quanto essa sia il motore che manda avanti le persone, che manda avanti me. Avere un progetto, per quanto uno possa applicarsi a disegnarlo, non basta. Bisogna crederci, bisogna avere fiducia. Nelle proprie possibilità, e negli altri. Perché, a ben vedere, se avessi dovuto basarmi unicamente sui feedback delle tante persone incontrate che mi hanno solamente usato, sui riscontri di tanti falsi amici, la scelta di undici anni fa avrebbe dovuto essere ben diversa, e definitiva.
Invece ci credo. Continuo a volerci sperare. Ed ad aver fiducia nell’Altro.

Non lo vedo in questi giorni, attorno a me. Vedo solo voglia di rompere, di andare contro, di non credere più in nulla. Solo voglia di bruciare, di distruggere, ma senza nemmeno porsi il problema di costruire, di far funzionare il mondo.
E’ molto più semplice, in effetti. Un muro lo tira giù a picconate o cannonate chiunque, ma per costruire una casa serve un progetto, serve un muratore, servono materiali, e serve impegno.
A dire “tu fai”, son capaci tutti. A fare, non ne sono così certo.

Ce ne sarebbero di discorsi da fare. Li lascio a chi crede di aver ragione, a chi non si mette un attimo in discussione. A chi ritiene di avere la verità e la soluzione in tasca, ma invece è solo un re nudo. Come in quella favola.

Io continuo a guardare invece ciò che ho fatto. E a progettare il mio domani.
Il progetto c’è, la voglia di realizzarlo ancor di più.
E ho fiducia. Io, ci credo.

Ferito

A volte arrivano notizie che ti lasciano sgomento. Senza fiato. Sembrano così assurde che la reazione più normale è quella di cascare dalla sedia e non crederci.
Eppure, succede. Succede che la persona che hai a fianco qualche ora prima non ci sia più, per sua scelta. Che quell’amica della tua infanzia, persa di vista da anni, ora sia molto malata. E non riesci a dormire, e quando finalmente Morfeo ti abbraccia, ti dona incubi che ti fanno rialzare distrutto.
Ora, questi sono i miei pensieri attuali. Certo c’è chi ne stila un romanzo sui vari social network, apparendo quasi forse irrispettoso nei confronti del dolore altrui, sputando sentenze ed elargendo perle di saggezza esibendo la propria megalomania, volendo interpretare il più profondo dolore degli altri e pretendendo di avere la verità in tasca. Senza averlo mai provato.
Quindi, parlerò di me. Di quel che mi è successo dieci, ormai undici, anni or sono. Di ciò che ha messo fine a quella fase che per comodità chiamo la mia prima vita.

Ma prima un piccolo incipit. Giusto per chiarire un pò i ruoli. Chi sono io, cosa posso essere. E’ un pò doveroso, nei confronti di chi crede di aver la linguetta molto glabra, e invece ce l’ha solo di un colore poco appropriato al palato. Questa è una citazione trovata in rete, che spiega bene chi è lo psicologo:

“Sono uno psicoterapeuta, ma siccome ho dei problemi vado da un altro terapeuta. La cosa non mi crea particolare disagio, perché anche il mio terapeuta va a sua volta da un altro terapeuta. E il suo terapeuta va da un altro terapeuta. E il terapeuta del suo terapeuta viene da me in terapia.” (Harvey Mindess)
Ma lo psicologo è veramente una persona normale? […] Lo psicologo è come un guaritore ferito. Intendo dire che è proprio merito della sua ferita se è predisposto a entrare in contatto con il dolore e i conflitti altrui. […] Certo, non basta essere stati feriti per fare gli psicologi e aiutare le altre persone. A ben vedere, è una condizione che accomuna tutti quanti noi. La differenza la fa cosa noi ce ne facciamo, di questa ferita. Se riusciamo o meno a trarne i frutti, se riusciamo a percepirla, a conoscerne i limiti, a trarne nuove sintesi. […] Ma secondo me l’elemento che predispone a fare questo mestiere è il rapporto che noi intratteniamo con questa ferita. Non è un caso che secondo alcuni lo psicologo, per curare efficacemente, non debba mai pensarsi separato dall’essere, almeno in parte, paziente egli stesso. […] Quindi lo psicologo non è un disperato che aiuta altri disperati. Ma è più paragonabile a chi, avendo imparato a prendersi cura delle proprie ferite, è più predisposto ad aiutare gli altri a fare la stessa cosa.”

Torniamo a me.
Primi anni di questo nuovo millennio, sono un adolescente, forse anche nella norma. Delusioni affettive, ripetute, crisi di identità derivante dal non capire cosa stessi facendo della mia vita, chi volessi diventare, e probabilmente anche se volessi diventare qualcuno o qualcosa. Praticamente, un treno lanciato a trecento all’ora, senza binari. Poiché i binari avrei dovuto gettarli prima di avanzare, ma non avevo né l’esperienza per farlo, tantomeno la pazienza di impegnarmici. Tanto convinto ero che in qualche modo qualcun altro l’avrebbe fatto per me. Che mi era dovuto.
Così, nell’autunno del 2002, poco meno di undici anni fa, mi ritrovo a scrivere:

sono morto dentro..
potrò anche sembrare il solito deficente che fa casino, ma sono morto dentro..
se non si han più sentimenti..
cosa è una persona..

Poche settimane dopo, provarci. A non esserlo più solamente dentro.
Fallire. Non capendo cosa avesse fermato quella folle corsa contro quel pilone.
Tutt’ora non ne ho idea. Mi piace pensare che qualcuno abbia gettato uno sguardo giù su quella strada. Forse è un mio bisogno, una mia difesa. Non lo so.
Probabilmente avevo così bisogno di qualcuno che mi guidasse, che ho voluto credere così.

Ma non era finita. Non è che dentro fossi rinato, anzi. Così dopo altre poche settimane mi ritrovo su un letto d’ospedale, con il cuore che fa i salti mortali all’indietro, che in qualche modo inizia a suggerirmi: “Non puoi andare avanti così. E’ ora che inizi a curare le tue ferite.”

Il resto è storia. E’ tutta qui, su questo blog.
Ma se non avessi trovato chi mi ha aiutato, in quei momenti, quella dottoressa che mi ha raccolto e ricomposto quando la mia mente era sull’orlo di frammentarsi del tutto, la mia seconda vita non sarebbe mai iniziata.

Questo non per dire che sono stato bravo, fortunato, o miracolato. Ma semplicemente raccontare cosa è successo a me. Poterlo dire, oggi. Aver fatto pace col proprio passato. Aver provato cosa vuol dire essere morto dentro, aver provato la disperazione della depressione. E, in qualche modo, riuscire a comprendere un gesto estremo. Stavolta, purtroppo, non fallito.
Non credo sia questione di fortuna o sfortuna. Ricordo che un prof diceva che era inutile provare a salvare uno che voleva farla finita. Prima o poi ci sarebbe riuscito comunque. Potevamo solamente provare a offrire un’alternativa, ma senza imporla. Senza obbligare l’altro a vivere. Senza pretendere di salvarlo. Perché non siamo salvatori, ma solamente persone anche noi.

Ora, i giorni scorsi si fanno sentire.
Provo rabbia di fronte alla mia impotenza. E’ difficile farsene una ragione.
Non c’è colpa, né mia, né tua. Non potevamo farci nulla.
Ma questa rabbia va fatta uscire. Se rimane dentro, il dolore aumenta, la rabbia cresce ancora di più, e il circolo vizioso si innesca. Ora lo conosco, so come curare le mie ferite.
E’ già qualcosa. Anche se bruciano, anche se fanno male.