Il mio limite

Questo lo facevo una vita fa. Prendere, senza un programma preciso in testa, e partire. Fuga veloce, qualche ora distante dal mondo e dalla realtà di tutti i giorni. Quella che ti asfissia, che ha sempre un retrogusto di conosciuto, di noia, di già visto. Nella quale non c’è spazio per il pensiero, per fare due conti nel proprio e ripartire. C’è solo frenesia, corsa, fatica, dovere. Questo lo facevo per riscoprire la calma, lo stare fermi in balìa del vento e del silenzio, per riscoprire il volere, il piacere.

Una vita fa. Credo fossero anni, almeno un decennio, che non mi partiva questo embolo mentale. Da ragazzino partivo in scooter, mi lasciavo tutto alle spalle, e ritrovavo lo spazio per me. Ricordo che avevo i miei posti preferiti, un angolo di Bassano, la collina sulla strada per Asiago con vista sulla pianura. Cima Grappa, Campitello, una sperduta calle di una deserta Venezia. Trovavo il tempo da dedicare al mio animo, per calmare le mie ansie, per riprendere fiato. Aria, quella era la cosa che bramavo di più, nel mio piccolo borgo ove ero spesso asfissiato da una diffusa mediocrità.

Poi, passare del tempo da soli diventò troppo. Non riuscivo più a permettermelo. Troppo spavento, troppo spazio, troppa aria. Uno spirito libero, imprigionato nelle angosce della fine. E, per lungo tempo, nessuno con cui poter davvero condividere questo. Poiché era quasi incomprensibile anche per me.

Essere visto. Si, chi se ne accorgeva di quel che stavo vivendo? E quei pochi che dicevano che avevano la sensazione che qualcosa non stesse andando nel verso giusto, dove scappavano quando avevo bisogno? Perché osservavano, e non facevano nulla? Quando sarebbe bastata una parola, un gesto semplice, a dirmi semplicemente “ci sono, sono qui”.

Poi qualcuno oggi mi chiede come mai ho mollato tutto per buttarmi in una professione che di certezze economiche – le uniche che quei qualcuno riescono a considerare – non ne dà nemmeno una. E penso a quella frase di ieri sera, che anche io pronunciai molte volte, e che solo ora che la sento dire da un altro riesco a comprendere a fondo. Riesco a comprendermi a fondo. “Se mi toccano qualcuno che mi è caro divento ancora più una bestia che se toccassero me”. Come dire: sono fragile anche io, ma non posso darlo a vedere, tanto non mi vedrebbero, quindi proteggo qualcuno che non sa difendersi da solo come a proteggere indirettamente una parte di me. Se mi fossi tolto il mascherone da Iron Man, qualcuno avrebbe visto l’uomo che c’è sotto? O tolto il costume, avrebbero perso ogni residuo interesse?

E, senza faticare troppo nel capirlo, mi resi conto che il mio problema ero riuscito ad amplificarlo. Non mi vedevano, non mi riconoscevano. E quindi, costumino e via, fletto i muscoli e sono nel vuoto, che questo è l’unico Ema che vogliono vedere. Che sono in grado di riconoscere.

Mai visto, mai conosciuto. Quando ero al liceo e affrontavo per la prima volta il mondo vero, l’unica risposta dei pari era “pensa ala pansa e ala mona”. Quando dissi a mio padre che avevo deciso di mollare tutto per intraprendere la vita da psicologo, mi diede del cretino, tutto concentrato nei soldi, nella testa, nel concreto. Ma verso i miei veri bisogni primari di figlio, neanche un accenno di riconoscimento. Qualche breve tentativo fallito, ma nulla di più. Ma perché dovevo essere per forza io quello che provava a tirarti fuori qualcosa a forza, un abbraccio o anche solo un sorriso.

E gli amici, o presunti tali, o meglio conoscenti. Pochissimi, quelli che vedevano al di là della scorza. Credo di poterne contare uno, o forse due. Il resto… opportunismo. E ammirazione per gli sgargianti colori del costume, che nel frattempo si faceva sempre più scuro. Feste, figa, schei, lavoro, pansa piena e balon. Come se il calcio fosse tutto, come se dall’ennesima partita di campionato dipendesse il futuro dell’universo. E si sparisce poco alla volta, risucchiati nel vortice di un mondo che di tuo non ha più niente.

Una luce non brilla di per sé. Brilla se c’è qualcuno che la osserva.
E una persona non esiste se non c’è qualcuno che la riconosce come tale.

Quel poco che sei davvero a quel punto lo difendi con i denti e con le unghie. Perché in fondo ho sempre saputo chi sono, cosa sono, cosa sono in grado di fare, chi voglio essere, dove sto andando. Sono scelte che ho fatto e le difendo, sono quelle davvero le cose che non puoi toccarmi. Anche se a volte, rivedendole in altri, diventavano essi la bandiera da difendere.

Non puoi inventarti la storia dell’orso e pensare che non la ricordi. Ho una buona memoria, qualche volta per fortuna fa acqua, ma nel complesso son poche le cose che non ricordo. Quindi non attribuirmi parole che non ho detto, azioni che non ho compiuto, cazzate che non ho fatto. Non lo posso tollerare, esplodo! Come andare a gettar sale negli occhi: non ci vedi più. E urli, anche per farti sentire.

E Maria che mi dice: “Ma anche tu allora ti fai sentire quando sei arrabbiato…”. Eh, già.

Il mio limite. Non tollerare che mi vengano messe addosso cose non mie. Equivale a non riconoscermi, a non vedere. Chi guarda a fondo ciò che considera un cestino delle immondizie, quando vi getta qualcosa? E forse invece era un vaso di fiori, forse con una forma un po’ strana, forse finito a terra e già usato come ricettacolo di porcherie. Ma bastava guardare, prima.

Anche fidarsi è diventato difficile. Quando impari dalla vita che anche chi ti è più vicino non ti riconosce. Alla fine smetti di cercare qualcuno da aver vicino. O, alla meglio, ti accontenti che ti faccia compagnia in modo superficiale, conscio che tanto non ti vedrebbe. E la maschera, quella maschera che hai messo per riuscire a respirare, non te la levi più. Neanche con lui. Troppa è la paura di essere ferito di nuovo.

Ora. Me la faccio comunque sotto. Ho ripreso a girovagare, in cerca d’aria. Volevo scoprire che diavolo era il Lido, oggi sono qui. Il mare d’ottobre, senza la ressa di gente che soffoca l’acqua. Il sole, il vento, il rumore delle onde sugli scogli, le alghe sul bagnasciuga, e solo un pescatore che dorme sul pontile. E’ qui che si fa ordine.

Si rompe la solitudine, anche se sei da solo. C’è aria, si respira. Ora.

Ora vengo smentito. E me la faccio comunque sotto. Perché ogni tanto, una persona su un milione, si accorge che ci sono. Mi riconosce per chi sono. E riesco a farmi vedere, senza maschera. Per poco, perché da troppo sono abituato a respirarci attraverso. Troppo shock restare senza per troppo tempo. Ma respirare l’aria, di nuovo, è qualcosa che fa venire le lacrime agli occhi. E’ come tornare a casa, dopo aver passato vent’anni in un paese lontano. Confinato, in un pianeta arido e desolato. Ogni mattina poi ci si sveglia e si crede, per qualche istante, di essere ancora lì, e quando si realizza che si è tornati a casa, si fatica a crederci.

Io, ancora ora, non posso crederci del tutto. Mi ci sto sforzando. C’è chi riesce a vederti, a riconoscermi. Chi già sa chi c’è dietro la maschera. Degli altri posso fare a meno. Delle persone che per sola compagnia mi ronzavano attorno e mi usavano posso ora far a meno. Sentirsi soli è solo un ricordo. Quando sei riconosciuto in mezzo ai tanti, inizi davvero a esistere. E quella sensazione, quell’abbraccio, ora lo porto con me.

Perdersi, ritrovarsi. Gradi di libertà.

La libertà di una persona prescinde da quella delle persone che ama. Ma le due cose devono andare di pari passo. Più o meno, è questo il succo di questi giorni. Ma andiamo con ordine.

Il cambiamento è inevitabile. Puoi provare a fermarlo, quantomeno a rallentarlo, ma alla fine arriva. E puoi adattarti, o soccombere, dicono. Ma c’è una via di mezzo: accettarlo, e metterci del proprio.
Prima legge del cambiamento: le persone non cambiano perché il mondo esterno le spinge a cambiare. Non cambiano in conseguenza dei propri errori. Non cambiano nemmeno se continuano a sbattere il naso contro il muro.

Le persone cambiano quando vogliono cambiare.

Tutte le altre variabili possono influire, certo. Possono dare quel valore aggiunto, dare una direzione, fornire indicazioni. Ma fin tanto che non è la volontà a decidere che è giunto il momento di seguire quella direzione, quelle indicazioni, non c’è evento che tenga. Si resta immobilizzati, continuando nei propri errori, nella solita strada, senza cambiare di una virgola.
Poi, qualcosa cambia. Non fuori, ma dentro di te. E di dice: è ora di fare una virata.
E quando arriva quel momento, non serve altro.

Sembra banale. Ma ci ho messo secoli a capirlo. Che non basta dire, fare, o semplicemente mostrare una possibilità alternativa. Che se il cambiamento non arriva, non è colpa mia.

Non è colpa di nessuno. E’ solo che il cambiare fa parte delle libertà individuali. E che se uno non lo desidera, è libero di restare dove si trova. E che io mi devo sentir libero di accettarlo, e di poterci anche star male.

Per me, riuscire ad accettare ciò è un cambiamento non da poco. L’ho percepito distintamente, qualche settimana fa. Potersi godere appieno il primo weekend di scuola, dopo settimane e settimane di stallo, di crisi. E da quel momento, davvero è iniziato tutto.

Un nuovo cambiamento. Già. Perché non posso obbligarlo, ma ho sentito come doveroso creare la possibilità che si verifichi. Quantomeno, con le persone cui tengo. Con la realtà che ho contribuito a creare.
E quindi. Arrivare al punto di dirlo: me ne vado. Stop, fine. Ma non per esasperazione, non per rabbia, non per rivendicazione. Ma per offrire poi una alternativa. Si chiude una fase, che non ha portato se non difficoltà e problemi. Se ne può aprire un’altra, differente. Che forse porterà da qualche altra parte, ma di sicuro non al medesimo stallo.

C’è una differenza anche nel chiudere con qualcuno. Puoi farlo in modo distruttivo, facendolo sentire uno schifo, facendo macerie di tutto quello che è stato costruito, bloccando l’altro in un loop senza fine. Ma lo si può fare anche in modo costruttivo. Mostrando che non c’entrano sentimenti negativi, ma che la libertà personale va di pari passo con quella altrui.
E quello di cui si parlava così spesso in comunità, con Daniel, e con gli altri in equipe, ora lo sperimento su me stesso. E sulle persone che mi circondano.

Nel concreto: si chiude un rapporto di lavoro, ma se ne apre un altro di collaborazione. Si chiude una fase da dipendente, e se ne apre un’altra da professionista. Un po’ in anticipo rispetto alla tabella di marcia, certo. Ma un passo dovuto. Sempre per aumentare i gradi di libertà. Che non sono dipendenti da situazioni ed eventi esterni, quanto da imposizioni e ordini che ti dai dall’interno.
Il nemico numero uno della libertà di una persona, a quanto pare è proprio sé stesso. Che può però diventare anche il più potente alleato.

E come sempre, di fronte a un cambiamento, si viaggia. Berlino, stavolta. E scoprire una città che non avresti mai immaginato, e godersi il viaggio con una libertà che non mi aspettavo. Ma non tanto per cambiamenti esterni, quanto per i miei.

Ora, rientrato, inizia questa nuova avventura. Ma il profumo di questa libertà, interiore, sempre più riconquistata, attenua anche le normali paure. Anche perché, la più grande libertà, è quella di non essere solo. Di non sentirsi solo.

Due mondi, due esistenze.

Quell’esame sembrava dannatamente difficile. Erano settimane che lo preparavo.
Avevo appena ripreso a studiare, dopo più di un anno nel quale l’unico interesse era stato far festa, divertirsi, bere, fumare. E poi c’era lei. C’era sempre stata lei. E c’era stato quell’unico momento che avrebbe potuto fare la differenza, e il negare ogni sentimento, ogni emozione. Nonostante le nostre lacrime avessero svelato da tempo le bugie di entrambi.
Primo febbraio, data caratteristica. 01/02/03. Quell’esame era arrivato. Non ci capivo un’acca di fisica, non capivo perché quella derivata dovesse stare proprio lì. Ma soprattutto non davo un senso alla mia presenza lì. Perché stavo mettendo tutto me stesso nel superare un ostacolo che non sentivo essere sulla mia strada, e perché mi ostinassi a perseguire quella strada, che nemmeno era la mia. Io volevo solo fare il riparatore, aggiustare, trovare un lavoro in una azienda che si occupasse di informatica. Tutto il resto non mi interessava. E superare ostacoli che non vedevo necessari, arrivare a una laurea che vedevo come superflua, mi sembrava un’enorme perdita di tempo. Le conoscenze pratiche le avevo, sapevo di poter fare quel lavoro. Quindi: che stavo facendo?
L’ora e mezza trascorse veloce. Mi sembrava anche di essere a buon punto. Quei calcoli mi erano riusciti pure abbastanza facilmente, arrivavo a ottenere dei risultati che mi sembravano pure realistici. Era fatta, l’avrei superato. Pochi minuti dopo uscivo, prima del termine del tempo concesso dal prof. La prima cosa da fare era accendersi una sigaretta. Sotto la pioggia, ovviamente.
Quel cappotto nero mi nascondeva. Era enorme. Rimaneva fuori soltanto la faccia, o meno, dietro occhiali scuri, berretto, sciarpa. Si, probabilmente la cosa più visibile era la sigaretta.
Ecco, inizia la transumanza, pensavo. Quel centinaio, su per giù, di colleghi studenti, che escono bestemmiando in molteplici lingue. L’esame era davvero dannatamente difficile. Alessio di avvicina, sta fumando la pipa. Mi chiede se ne voglio. Non era caricata a tabacco, ovviamente. Il profumo lo conoscevo bene, orange, un tiro e mi ritrovo con una tosse da panico, e giù a ridere. Ma il ritorno mi attendeva. Mi sentivo un estraneo lì, sarei voluto ripartire al più presto per tornare a casa. Dieci minuti dopo ero già sulla via del ritorno.
Red Hot Chili Peppers. Ovviamente ad alto volume. La strada corre veloce, supero il fiume, mi ritrovo sul cavalcavia di Pieve. E lì…

Il cuore si ferma. Me ne accorgo, e il primo pensiero è: oh cazzo.
Mi sento rosso, sudato, col fiatone. Poi riparte.
Ma che cazz.. si ferma di nuovo.
Il respiro si fa veloce, repentino, incoerente. Tossisco, oh cazzo ma che cazzo succede. Riparte.
Apro il finestrino. Sto morendo? Proprio ora che ho fatto questo dannato esame? Cioè, tutto questo per niente?
Riesco a fermarmi. Via Monte Grappa, parcheggio sulla destra. Scendo dall’auto. Il cuore si ferma di nuovo. Tossisco, e riparte.
Sto impazzendo? Dove diavolo sono? Cosa sono?
Mi accendo una sigaretta. Respiro profondo il fumo, l’ossigeno. La butto. Fame d’aria, il cielo è grigio, tutto è grigio. Ci sono solo io, e io.
Me ne accendo un’altra. Mi viene da ridere, mi viene da piangere.
Pochi minuti passano, e torno normale. Cosa è successo?
Ritorno a casa, la prima cosa da fare è chiedere. Mamma, mi è successo questo, e spiego. Sarai stato stanco, non darci troppo peso, la risposta. Piuttosto scontata, devo dire.

Di lì, nulla fu come prima.
Le crisi, questo il nome che diedi a quegli episodi che ancora non sapevo si chiamassero attacchi di panico, si susseguirono. Mi ricoverarono infine, per accertamenti. I medici temevano che ci fosse un reale problema cardiaco. Ovviamente, non c’era. Ma ospitarmi in geriatria, a causa della cronica mancanza di posti letto, non fu un’idea proprio sana. Dopo cinque giorni, dei sei iniziali che eravamo, e dei quali il più giovane aveva il triplo dei miei anni, quattro se n’erano andati al creatore. Un toccasana, devo dire. Se non altro, nell’ultimo giorno di permanenza, di crisi non ce n’erano state.

Ricordo come fosse ieri la serata della dimissione. Il giorno di San Valentino. Prima cosa da fare, chiamare Sandro. Andare a bere una birra, raccontargli l’avventura. Ovviamente, Monaco. E Weizen, piccola, che avevo in corpo ancora troppi farmaci. “Biirrra..! Aaaaah!” esclamai, quando arrivò Adriano salutandoci. Ma l’accento, con il quale parlavo, nemmeno quello era il mio.

Quel viaggio obbligato all’inferno era appena iniziato. Io non me ne rendevo conto. Dopo appena quindici giorni dal primo sintomo, non avrei potuto immaginare che quella vita sarebbe a breve terminata. Per lasciare il posto a un’altra.

Settembre. Mi sentivo pronto a riprendere, o meglio, l’appello incombeva e non potevo sottrarmi nuovamente ai miei doveri. Così consideravo quel percorso: un dovere. Ed ero così vicino a superare quel nuovo esame, che…
Che non potevo farlo.
Quel momento sarebbe stato un punto di non ritorno. Lo scoglio più grande, e tutto poi sarebbe stato in discesa. Ma era davvero ciò che volevo? Volevo davvero proseguire per quella strada?

Non pioveva, c’era una brezza leggera e calda di fine estate. Il parchetto davanti all’aula studio aveva una panchina, e mi sedetti lì. A ripassare. L’esame sarebbe stato il giorno dopo. Dovevo superarlo. Quella trasformata mi riusciva, ed era la più difficile della dispensa. Così provavo a rifare i conti a mente, per vedere se avevo davvero capito.

Finché le lacrime non iniziarono a scendere.
Quella non era la mia vita, o almeno, non lo era più. O forse, non lo era mai stata. Ma qualcosa era cambiato, negli ultimi mesi. Non sentivo più quella strada come la via obbligata, come l’unica che potessi percorrere. Da un lato la famiglia, il senso del dovere, che mi invitavano a smettere di frignare e fare l’uomo. Che cosa sarebbe mai stato quell’esame, che cosa aspettavo a buttarmi, a proseguire diritto… Dall’altro io, solo io, che non ne potevo più di mentire a me stesso.

No, pensai. Basta. Basta.
Sollevo il telefono, compongo il numero. No, non ce la faccio. Odio sta roba, non posso continuare. Sto troppo male. Voglio uscirne.
La sera, la decisione. E nel giro di cinque giorni trovare un lavoro. Che, paradossalmente, era quello che avrei sempre voluto fare. Fare del mio hobby il mio lavoro. Aggiustare, riparare.
Il colloquio andò così bene che non mi accorsi nemmeno di sostenerlo. E la risposta “quando vuoi iniziare” tolse ogni dubbio a quella scelta. Ora potevo aggiustare, riparare.

La crisi. E sentivo che qualcosa era cambiato.

Riparare, aggiustare. Si. Ma cosa?
Dubbi, dubbi, e ancora dubbi. Gli anni trascorrono veloci, se non pensi. Se il dolore di pensare viene annegato nel lavoro, nelle amicizie fittizie, nell’alcool. Se non pensi. Se fuggi.
Il problema è proprio questo: si fugge. Dai ricordi, dalle situazioni non elaborate, dai non conclusi, dal proprio sé.

E infatti, appena due anni dopo, la virata. E farsi la domanda: aggiustare cosa?
Di lì, nuovo cammino. Ridisegnare il futuro. Era stata solo una tappa, ma il cammino continuava.
Bello corazzato, con una nuova armatura, così spessa da permettermi di essere qualcosa, senza avere altre crisi, senza permettere tuttavia alla mia pelle di respirare.

Mettersi in discussione. Parte integrante di questo percorso.
Dopo sei anni di università, da psicologo stavolta. E rendersi conto che non si tratta tanto di aggiustare, di riparare, quanto proprio di trovare la propria strada, di fare da appoggio, finché non si riesce ad accettare ciò che ha lasciato il passato, e trovare le chiavi di volta per il futuro. E questo conta sia per il paziente, che per il terapeuta.

Ora. Torno al presente.
Una lunga digressione. Sono settimane che ci lavoro. Non avevo idea di cosa sarebbe potuto uscirne. Ma è tutto ancora in corso. O meglio, i nodi vengono al pettine, e sto lavorandoci proprio ora.
Per poterci pensare, per poter amalgamare la prima e la seconda vita, che in fondo son sempre io, anche se sembrano capitoli così distaccati, così diversi.
Sentirle due vite, una bella difesa quella che ho eretto. Tengo scisso il mio passato dal mio presente, ma anch’esso è parte di me.
Che, ciclicamente, ritorna.

Se penso a cosa mi ha fatto soffrire negli ultimi anni. Sempre sul tema dell’orgoglio siamo.
L’essere in grado di capire le persone al volo, di non fare errori di valutazione, per non restare deluso. Ho bisogno di dare fiducia, e spesso la si dà ciecamente quando si ha bisogno degli altri. E riconoscere il bisogno degli altri è, per me, già un gran risultato. Ma il punto è: accettare di sbagliare.

Prima, quel narciso terribile che ha smembrato ciò in cui tenevo di più. Poi, ricomporre, perché io riparo, giusto? E poi, nuovamente, vedere tutto esplodere, stavolta grazie a chi consideravo una persona degna di fiducia e invece si è rivelata essere interessata solo al proprio tornaconto. E pensare infine che, di ricomporre nuovamente, non ne valeva nemmeno la pena. Perché chi sono io per decidere del futuro altrui, anche se in buona fede… Quindi, cazzi vostri.
Ma al contempo, l’orgoglio pesa. Di non aver capito in tempo, di aver fallito. La razionalità dice: pazienza, succede! Ma l’emotivo no, non lo accetta. E anche qui, in sostanza, resto bello che scisso.

Ma ora. Oltre al lavoro, che porto avanti ogni giorno tra le mille difficoltà, e anche lì ingoiare il rospo e tenere a freno l’orgoglio è un impegno… cosa resta?

Resta che c’è ancora il passato, che ciclicamente torna. E tormenta.
E il sogno di stanotte non lascia dubbi. Tu, ancora lì. Ventenne, come ti ricordo, com’eri l’ultima volta che ci siamo visti. Di sfuggita, perché per parlarsi lo spazio non poteva esserci. L’orgoglio, anche allora.
Chissà ora dove sei. Chi sei. Che fai, che futuro avrai.
E’ un flusso di pensieri inarrestabile. Perché infine, tutto è ancora legato ad allora. E a te.

Undici anni di tempo, undici anni di percorso. E capire infine che devo riconciliarmi con ciò che ero, per poter vivere ciò che sono, e poter continuare a progettare il futuro. E stavolta, non solo il mio.

Ascoltare oggi “Pull me under” dei Dream Theater, o gli Angra, o ancora “Under Pressure” dei Queen, la tua preferita, è ancora un tuffo al cuore.
Ma almeno ci riesco. Non mi rifiuto più. Le lacrime scendono, il passato ritorna, inconcluso.
Non potrà mai concludersi. O meglio, non posso farlo concludere io. E’ fuori dalla mia portata, non ne ho il potere. E qui è l’orgoglio che va tenuto a freno. Che va domato, e per domarlo, accettato prima.

Tempo. Da bravo timelord ricordo a me stesso che ne ho quanto ne voglio, ma in realtà posso solo guardare avanti a me, non posso cambiare il passato.

Ecco quindi, come sto ora. Dove sono andato a finire, cosa mi tormenta. Posso correre se ho una meta, ma al contempo non posso continuare ad avere una fune che mi tiene ancorato alla prima vita, e che mi rimanda ciclicamente al punto di partenza.
La scuola mi aiuterà, penso. La vita da specializzando già mi entusiasma. Ho poco meno di quattro anni davanti. Ho fiducia, dovrei… dovrei farcela.